GRANA PADANA

Caso Morisi e divisioni interne, Lega in affanno verso le urne

La vicenda dell'ex guru social e le manovre di Giorgetti scuotono il partito. Quanto incideranno sul voto di domenica le attuali difficoltà di Salvini? Al momento sembra poco, spiega lo studioso Natale. E Damilano si smarca con una mossa da politico consumato

L’ordine di scuderia è minimizzare e negare. Anche nella Lega piemontese vige la consegna del silenzio: nessun commento pubblico, niente interviste. Sul “caso Morisi” come sulle mosse di Giorgetti parla solo Matteo Salvini. E la difesa è quella solita, in questi frangenti: evocare il complotto per serrare i ranghi, smentendo divisioni interne. Almeno fin che si può, sperando di guadare la boa delle urne di questo finesettimana. “Siamo concentrati sulle amministrative”, conferma Riccardo Molinari nella sua doppia veste di segretario regionale e capogruppo alla Camera. Ma è proprio questa la preoccupazione che agita maggiorenti e militanti a poche ore dal voto. Quanto inciderà nelle urne lo tsunami che sembra sul punto di travolgere la Lega salviniana? E così la presa di distanza del candidato civico Paolo Damilano pronunciata ieri – “Io di centrodestra? No, sono un moderato liberale” – ha l’effetto di una doccia gelata che spegne d’un colpo tutti quegli entusiasmi della vigilia.

Eppure, al momento sembra prematuro ogni pronostico. Dello scarso o pressoché nullo effetto nelle urne si dice convinto il politologo Paolo Natale. “Da quanto ci risulta – spiega, facendo evidentemente riferimento a sondaggi effettuati dopo l’esplosione del caso – l’affaire Morisi non ha provocato smottamenti e non ci sono segnali che ne provocherà. L’impressione è che più della vicenda dello spin doctor potrà pesare la spaccatura ormai evidente tra l’ala salviniana nazionalista e quella giorgettiana che punta a riportare la Lega nell’alveo originario con i governatori delle Regioni del Nord”.

Tra i fardelli che mai come oggi pesano sulle spalle del Capitano (definizione coniata proprio da Morisi), per il docente di Metodi e tecnica della ricerca sociale all’Università di Milano “c’è anche quello sbarco della Lega al Sud che oggi vale non più del 5 o 6 per cento”. L’altra faccia della medaglia è il Nord dove la Lega, allora di Umberto Bossi, è nata ed è cresciuta e, oggi, in qualche modo si ribella a quelle scelte di Salvini tutt’altro che paganti e apprezzate. Basterebbe solo il Green Pass, invocato e benedetto dagli imprenditori piccoli e grandi per evitare di doversi fermare o rallentare per causa del virus.

Come in una riedizione, in epoca Covid, del Papeete il leader della Lega anziché ascoltare la voce delle imprese, che poi al Nord sono la storica base elettorale del suo partito, si è infilato in una rincorsa di Giorgia Meloni. Non è un caso che anche ieri l’altro proprio a Torino Salvini non abbia pronunciato neppure una volta la parola green pass parlando ai suoi elettori, la cui stragrande parte il lasciapassare verde lo difende e, appunto, lo invoca. Come fanno Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana, e tanti assessori leghisti compresi quelli del Piemonte.

Insomma, la Lega tiene nonostante la tempesta del caso Morisi e quella che è ormai più di una maretta tra le due anime del partito. Tiene, terrà come prevedono gli osservatori alla prova del voto, specie nella città considerata forse la più contendibile al centrosinistra, qual è Torino. “Per la vicenda Morisi è ancora troppo presto perché, semmai, possa avere effetti sul voto, mentre – osserva Natale – i travagli interni è estremamente difficile portino un elettore leghista a votare diversamente. Questo è un dibattito interno che almeno in questa tornata elettorale difficilmente avrà ripercussioni”.

La tensione si taglia più col coltello ai vertici piuttosto che tra i militanti, nell’elettorato che in questi anni, secondo i sondaggi delle scorse settimane, è cresciuto raccogliendo parte di quei consensi andati cinque anni fa ai Cinquestelle, soprattutto nelle periferie, anche se contesi con l’alleato FdI. Proprio la necessità di non farsi superare dal partito della Meloni e arginarne la crescita è l’obiettivo non secondario della Lega. Si diceva della tensione, certo non sedata dalle ultime dichiarazioni di Damilano. Il suo posizionarsi come moderato liberale e non di centrodestra (posizione peraltro corroborata dalle nomine ricevute dalla giunta di Sergio Chiamparino, come quella al vertice del Museo del Cinema) ha innervosito non poco i dirigenti leghisti. Poi la mancata partecipazione al tour cittadino con Salvini e, oggi, la chiusura della campagna elettorale della lista civica – ha precisato – proprio con Giancarlo Giorgetti, deve aver fatto passare in secondo piano, per appena qualche minuto, perfino la vicenda Morisi.

Quella nell’impolitico Damilano, del civico mai prima d’ora confrontatosi con un’elezione, è una mossa da politico consumato? “Direi proprio di sì – spiega Natale –. Porsi in una situazione un po’ più centrista sembra una mossa azzeccata soprattutto in vista del ballottaggio con Stefano Lo Russo. A Torino, con la sua storia, votare un candidato apertamente di centrodestra pone oggettivamente più difficoltà rispetto a indicare sulla scheda un candidato che oltre a definirsi civico, manifesta la sua posizione centrista, togliendo agli avversari un elemento da giocare al secondo turno e provando a scacciare i timori a chi paventa una svolta decisa a destra. Una mossa di politics, non certo di policy”. Più che parlare del futuro della città, in questa circostanza, Damilano avverte che non sarà mai un uomo di destra”.

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