RETROSCENA

Proporzionale, la strada è in salita.
Il Pd ha tagliato i ponti ai pontieri

I colpi bassi di Letta e compagni durante la campagna elettorale delle Comunali ha minato, forse definitivamente, il terreno della trattativa sulla legge elettorale. Tra i più presi di mira Molinari nella sua Alessandria, esponente dell'area dialogante della Lega

Hanno fatto saltare i ponti e avvelenato i pozzi dei pontieri. L’immagine data da chi, nel centrodestra come nel centrosinistra, lavorava sottotraccia a un’ipotesi di legge elettorale per affrancare il Pd dai Cinquestelle da un lato e la Lega dai Fratelli d’Italia dall’altro, illumina il momento di torsione che ha accompagnato e segnato la campagna elettorale per le amministrative. Urne dalle quali, soprattutto nei ballottaggi, il partito di Matteo Salvini è uscito con le ossa rotte.

Trattative delicate quanto riservate quelle condotte dalle anime più moderate e dialoganti dei due partiti avversari, alleati nella larghissima maggioranza a sostegno del governo di Mario Draghi, consapevoli dei legami che possono in fretta diventare legacci sui loro fianchi estremi. Lavorare per un proporzionale, una possibile soluzione agli occhi di chi tra i dem paventa rischi nella coltivazione del campo largo da ben prima che non solo si consumasse, ma si affacciassero i segnali della scissione dimaiana. L’esperienza del Conte Due non appartiene all’album della nostalgia per più di un esponente di rango del Pd, di quell’area post-renziana o comunque riformista che dell’avvocato del popolo e della sua forza politica non intende essere in nessun modo ostaggio, al netto dei proclami e delle rassicurazioni di Enrico Letta.

Una deep diplomacy che non prevede conferme e nel caso occorra contempla smentite della sua esistenza, in cui non è difficile intravvedere pontieri, verso omologhi sul fronte leghista, che rispondono alle figure di Matteo Orfini, dell’ex ministro Graziano Delrio e dell’attuale titolare della Difesa Lorenzo Guerini, insieme ad altri convinti che un dialogo dalla rispettive posizioni con l’ala della Lega meno dura e soprattutto per nulla orientata a continuare ad inseguire Giorgia Meloni sulla via nazionalpopulista ricavandone un sorpasso continuo nelle urne e una ormai manifesta rivendicazione della leadership da parte della leader di FdI.

Nell’area trattativista del partito che, dai suoi albori e nell’epoca d’oro del Senatur, di trattative ne fece facendone spesso reddito politico e di consensi, va collocato certamente il suo capogruppo alla Camera. Riccardo Molinari da quello scranno, occupato dall’inizio della legislatura subentrando a Giancarlo Giorgetti nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo gialloverde, ha evidenziato e accresciuto le sue doti di mediazione e, ancor più, di dialogo con l’atout del riconoscimento delle sue qualità anche da parte di pressoché tutti gli avversari. Non certo un Claudio Borghi (peraltro bacchettato dallo stesso Molinari per la sua partecipazione a una manifestazione No Vax), per capirci, né un Simone Pillon, tantomeno un Lorenzo Fontana, il parlamentare alessandrino è altra roba, è quel che serve se c’è come c’è stato da interloquire da fronti opposti per obiettivi in qualche modo coincidenti in una realpolitik, al netto degli slogan e dei proclami (pure di fedeltà all’alleato) altrettanto necessari, anche come paravento.

Pontieri su un fiume Kwai, con il detonatore che viene premuto nel momento ritenuto, non a torto, più propizio ovvero le elezioni comunali, specie laddove l’avversario per interposta figura del candidato sindaco è proprio uno o più di coloro che stavano conducendo, pur ancora abbozzate e fluide, trattative.

Nel Pd del campo largo il fronte più filo Cinquestelle, quello dei capataz sudisti Francesco Boccia Giuseppe Provenzano e dei sinistri alla Andrea Orlando, non è un caso se è anche quello più pronto, determinato e attivo nel puntare ai pontieri. Molinari, nella sua Alessandria, è un bersaglio grosso e scoperto. Il suo partito è già in difficoltà, i Fratelli d’Italia incalzano e sorpassano, insomma le migliori condizioni per attaccare da parte di chi guarda certamente al risultato dato dalla riconquista di una città importante, ma non disdegna affatto le conseguenze collaterali che vanno e portano l’analisi della contesa mandrogna ben oltre la cinta daziaria e le stesse dinamiche regionali. Per non dire delle due iniziative parlamentari su ius scholae e cannabis vissute come due dite negli occhi, una vera provocazione per indurre a far saltare il banco (seppur dietro le quinte) delle trattative. Persino Giorgetti non viene risparmiato, mettendolo in difficoltà sulla vicenda Ilva e riagitando gli spettri della Bolkestein.

E così Molinari che non ha mai nascosto tutte le sue perplessità, per non dire di peggio, rispetto al governo gialloverde e che ha sempre guardato con sospettosa attenzione verso il fronte destro della coalizione, è finito con l’incarnare l’obiettivo da colpire in un’eterogenesi dei fini: batterlo nel suo feudo elettorale e azzopparlo nel dialogo con l’ala meno filogrillina dei dem. Enrico Letta impegnato a difendere a spada tratta pur a dispetto dei numeri grillini il campo largo e la discesa in campo nela marca molinariana oltre che del segretario nazionale anche di figure di primo piano del Pd più legato ai Cinquestelle, alimentano l’ipotesi che il voto del 12 e non di meno quello di due settimane dopo siano state circostanze propizie per attuare quella torsione a favore degli estremi e con l’obiettivo di far saltare ponti, peraltro, appena abbozzati.

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