GRANA PADANA

La Lega non sa che fare,
ultima rogna la Moratti

Dire addio a Draghi? Rilanciare il federalismo? Lotta o governo? Nel partito regna la massima confusione e Salvini incassa un'ostentata unità. Giorgetti è il solito cicisbeo e non sarà mai un leader. I sospetti su manovre trasversali in Lombardia

La solita messa cantata. “La leadership di Matteo Salvini non è in discussione”, amen. Sulla soglia di via Bellerio Giancarlo Giorgetti segue la liturgia che non ammette trasgressioni. E, comunque, semmai ci fosse stato chi le immaginava da lui ha avuto l’ennesima conferma di un’illusione che mai si trasformerà in qualcosa di diverso. 

Il vertice leghista si è confermato il prevedibile e previsto rito di fedeltà al Capo, senza i dioscuri – Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, uno negli Usa l’altro sulla Marmolada – cui il mugugno leghista affida, ad oggi lontane, speranze di cambiamenti. “Non decido io se restare” al Governo, avverte Giorgetti girando la palla ai due capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Evoca la Carta: “Come dice la Costituzione della Repubblica Italiana, è il Parlamento che dà la fiducia al Governo, non è il Governo che dà la fiducia a se stesso”.

È passata una manciata di giorni da quando su un’altra soglia, quella della sede del gruppo parlamentare, proprio Molinari aveva avvertito che di fronte alla sortita, con accelerata, del Pd su ius scholae e cannabis “non si può andare avanti”, alimentando quel fronte interno alla Lega che preme per l’uscita dalla larghissima maggioranza a sostegno di Mario Draghi. Parole pesanti, quelle del capogruppo a Montecitorio, saldamente ancorato alla linea del segretario, e che confermano come il ventre molle del partito digerisca con crescente mal di pancia la permanenza nell'esecutivo. Se strappo sarà dovrà però essere imputato alle forzature degli alleati di sinistra e non certo provocato dall’inaffidabilità della Lega. Nessun Papeete bis, tanto per essere chiari.

Al netto dei malumori che attraversano a vari livelli e a ogni latitudine il Carroccio, la questione del Che fare? di leniniana memoria in un partito che, dal vertice alla base, leninista è rimasto, si pone. Quello che non è immaginabile né tantomeno praticabile è lo scisma. La scissione, insomma, non è all’ordine del giorno, se non altro perché nessuno intende capeggiarla. 

Qualcuno avvisi, incominciando dal nordovest del Piemonte, quei leghisti osservanti la regola di San Damiano (tira la pietra e nascondi la mano) che il bocconiano di Cazzago Brabbia non sfugge alla regola: nessun ottimo numero due diventa il numero uno. E qualcuno ricordi a Paolo Damilano, mancato sindaco di Torino e novello fuoriuscito dal centrodestra navigante in acque incerte verso il faro giorgettiano, che il suo riferimento non sarà certo l’uomo pronto a impugnare nuove ramazze. L’imprenditore dell’acqua e del vino sabato prossimo sarà alla convention di italia al Centro, promossa dal governatore ligure Giovanni Toti. “Spero in Giorgetti, fuori o dentro la Lega”, aveva ammesso Damilano, pochi giorni fa. Fuori è una pia illusione e dentro, beh ieri pomeriggio da via Bellerio (dove Salvini pare averlo invitato a parlare con i giornalisti) ha detto quel che ha detto. L’ufficio politico che sembrava profilarsi come cordone sanitario attorno al Capitano? “Ma va là”, taglia corto e spiega in una battuta chi in via Bellerio c’era. “Solita riunione”, solito rituale, solita riconferma della fiducia in Matteo, che “non è in discussione”. Punto. Togliere il nome di Salvini dal simbolo? “Nessuno ne ha parlato”.

E l’ala governista incalzata da quella movimentista? Muovere la Lega verso un ancor più forte sostegno a Draghi, con inevitabile passaggio nel Partito Popolare Europeo per costruire il futuro, scontando il rischio di cambiare in larga parte l’elettorato, oppure un forte ritorno verso le origini sia pure rivisitate, riaffermando il perduto radicamento nel territorio e la rappresentanza dei ceti produttivi del Nord? La questione è “la” questione, quella che potrebbe davvero cambiare in un senso o nell’altro la Lega, sottraendola dall’autolesionista competizione con Giorgia Meloni. Le ricette divergono, le soluzioni aprono scenari divaricanti, ma la consapevolezza è unanime: “Non possiamo rimanere fermi”, in balia delle mosse di alleati e avversari, ad affrontare una grana dietro l’altra, come l’ultima: la Moratti.

Letizia Brichetto Moratti, vicepresidente della Regione Lombardia, chiamata in corsa e di corsa nominata assessore alla Sanità in luogo dell’incespicante Giulio Gallera, pare non aver nessuna intenzione di ritirare la sua disponibilità a correre per la presidenza della Regione, nonostante la ricandidatura del leghista Attilio Fontana. Tra i lumbard, chiamati ieri a raccolta dal Capitano, circola il mantra che vuole l’ex sindaca di Milano e presidente della Rai “voluta da ambienti vicino a Draghi”. Lo spettro di una nuova Verona meneghina per il partito di Salvini si fa incubo.

Nel Nord su cui s’affaccia la pretesa di una candidatura al vertice di una Regione da parte della Meloni, la discesa in campo di Moratti potrebbe, in teoria, giocare a favore della Lega per una rivendicazione del Piemonte, sempre che Alberto Cirio rinunci a un secondo giro. Troppo presto per risiko e Cencelli, soprattutto prima di capire quale sarà il perimetro della coalizione. Ma non è neppure il tempo, e probabilmente mai lo sarà, per immaginare e sperare che – come non accadde per Giuliano Amato di diventare leader del Psi craxiano o a Gianni Letta di uscire dal ruolo di ciambellano della corte berlusconiana – l’eminenza grigioverde diventi leader, non avendo finora mostrato né le attitudini né l’aspirazione.

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