GRANA PADANA

Salvini punta i piedi sul Viminale, Molinari e Giorgetti fanno la ola

Il Capitano manda in campo i colonnelli e lancia il guanto di sfida alla Meloni. Per il capogruppo non c'è persona "più idonea" di Mr. Papeete. Il Don Abbondio di Cazzago si acconcia agli slurp. Ma la base della Lega è in subbuglio, persino nel pacioso Piemonte

Capitano, o mio capitano. Se gli uffici della Camera dove ieri si è riunito il Consiglio federale della Lega fossero stati una scuola, tutti sarebbero saliti in piedi sui banchi. All’uscita nessuno si lascia sfuggire l’attimo per dire che Matteo Salvini è l’uomo giusto per il Viminale. 

Tra i più lesti il capogruppo a Montecitorio, Riccardo Molinari: “È la figura più idonea a ricoprire quell'incarico”. L’eminenza grigia, sempre più don Abbondio seppure con trascorsi cardinalizi nella curia di Palazzo Chigi e al Mise, Giancarlo Giorgetti muove il turibolo incensando il segretario del ruolo di “candidato naturale” al ministero attualmente occupato da Luciana Lamorgese. Dicastero che nella Prima Repubblica fu prerogativa per decenni della Democrazia Cristiana qualunque fosse il governo: una potestà da Alcide De Gasperi a Nicola Mancino interrotta per la prima volta, nel 1994 proprio da un leghista, Roberto Maroni.

“Farò quel che serve al Paese”, il controcanto un po’ Draghi style di Salvini al coro che lo osanna dopo la conclusione del federale con la riconferma del “pieno mandato” al segretario di un partito dove i mal di pancia interni ci sono, ma spariscono come d’incanto al cospetto della rappresentazione plastica del leninismo di cui la Lega è l’ultima formazione politica a conservarne riti e ortodossie.   

La realpolitik di Salvini, in vista della formazione del Governo di Giorgia Meloni, salta fuori con lo stesso segretario che per la prima colta non esclude un passo di lato nella sua corsa per il ministero degli Interni. Detto questo, Salvini chiede per la Lega anche il dicastero delle Riforme e Autonomia, quello dell'Agricoltura e delle Infrastrutture. Al contempo non molla un centimetro sul programma, a partire dalla flat tax e quota 41. Un modo evidente di dettare la linea, ma anche solleticare quell’orgoglio che il partito non ha perso, ma certo non è più quello di un tempo.

Sembra guardare con giustificata preoccupazione al fronte del Nord-Est, storicamente il più autonomo e fermentoso del leghismo, quando mette l’accento sull’’autonomia, definendola “fondamentale”. Una porta aperta al governatore veneto Luca Zaia (per evitare di vederselo entrare dalla finestra?) che non a caso chiede il ministro per gli Affari Regionali “perché l’auonomia resta la madre di tutte le battaglie”. Per Zaia la Lega dovrebbe anche non rinunciare ai dicasteri ricoperti nel precedente governo, ovvero Sviluppo economico, Turismo e Disabilità: “Se abbiamo lavorato bene, perché cederli ad altri?”. Il non detto contiene anche la riconferma di Giorgetti tra i ministri.

Dal Nord-Est segnali di risposta all’iniziativa di Umberto Bossi con il suo Comitato del Nord? Nel federale di ieri nessun cenno alla sortita del Senatur. Ignorata perché non preoccupa i vertici del partito o per l’esatto contrario? Certo non giova alla causa bossiana l’intervista in cui a sostenere che “Bossi fa bene a riaprire al Nord, Salvini faccia le sue riflessioni” è Francesco Belsito, leghista della prima ora, ma anche ex tesoriere del Carroccio che nel 2012 venne travolto dall'inchiesta sui finanziamenti del partito, con i celebri diamanti dalla Tanzania. “Con un testimonial di questo livello – ironizzano tanti leghisti a Montecitorio – non andranno lontano”. Inciampo sull’ex tesoriere a parte, il vento del Nord sembra tornare a spirare dentro e fuori la Lega.

Se la richiesta del dicastero per gli Affari Regionali apre a una riedizione del vecchio Cencelli leghista con la rivendicazione nordista di alcuni ministeri identitari in senso federalista, come da dottrina bossiana, c’è gran fermento tra i quadri intermedi e nella base del partito. In particolare attorno a quel mondo di leghisti storici esclusi dal cerchio magico di via Bellerio ed epurati dalle e liste alle ultime elezioni: fuoriusciti rimasti (per ora) tra le pareti domestiche, senza spezzare il cordone ombelicale padano, critici della svolta nazionalsovranista. Un fermento che persino nel pacioso e normalizzato (nel senso di ligio aila linea salviniana) Piemonte potrebbe presto sfociare in iniziative clamorose.

La fine della liaison con gran parte dei ceti produttivi del Nord, il pesante calo di consensi in quei territori un tempo predominio della Lega a vantaggio di Fratelli d’Italia se non porteranno a un cambio della leadership – con Zaia e il suo collega friulano Massimiliano Fedriga a presidiare i loro patrimoni personale di voti e Giorgetti sempre più a suo agio nei comodi abiti del cavalier servente – non potranno non imporre al Capitano una correzione di rotta. Magari proprio con quei ministeri identitari e con cui portare avanti le riforme in senso federalista che lo storico elettorato si attendeva dalla Lega. E ha segnato sulla scheda la sua delusione.

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