SACRO & PROFANO

Repole chiude la stagione pellegriniana (con qualche indulgenza sul marxismo)

Nelle prime interviste inizia a delinearsi il profilo culturale e pastorale del nuovo vescovo di Torino. Riempire il vuoto della caduta delle ideologie. La sfida della secolarizzazione e la nuova identità dei cristiani. Rumors sul prossimo direttore del seminario

Le recenti interviste dell’arcivescovo Roberto Repole sono un eloquente saggio e dicono molto di quello che sarà il suo stile comunicativo. Esse si pongono come una dichiarazione d’intenti rivolta al mondo culturale, alle realtà ecclesiali e, solo in subordine, alla società civile. Se per il predecessore Cesare Nosiglia la secolarizzazione andava bilanciata con la spettacolarizzazione della prossimità, cioè col recarsi nelle fabbriche a rischio chiusura e con la “presa in carico” dei più deboli e fragili, lasciando in terzo o quarto piano il mondo ecclesiale, per Repole occorre ripartire invece dalla Chiesa per poter spingere la società a un cambio di paradigma che, offrendo risorse spirituali al passo con i tempi, possa riempire il vuoto lasciato dalla caduta delle ideologie  e contribuire a una ripresa di slancio culturale e comunitario in grado di fecondare la società.

In quest’ottica, il modello parrocchiale tridentino, pur glorioso e onusto di meriti, deve essere rivisto se non superato. Come e in che modo non appare tuttavia ancora chiaro, se non all’entourage “boariniano” che per tutta l’estate ha studiato il dossier. Il tema dei diritti viene affrontato ma in un’ottica sociologica e non sindacalistica e il cambio di identità deve comunque passare per il rifiuto di elementi antitetici al Vangelo. Non solo il tempo ma i suoi atti concreti diranno se quello dell’arcivescovo è solo un modello accademico, frutto delle elaborazioni del suo cerchio magico oppure, come molti sperano, una cura saggia e appropriata.

Una cosa è sicura. Per chi non lo avesse capito la lunga stagione “pellegriniana” è finita e consegnata all’apologetica dei suoi attardati epigoni. Nelle interviste compare – forse quale tardivo omaggio alla sinistra clericale – un incomprensibile accenno al marxismo come fenomeno che avendo radici nella tradizione giudaico-cristiana sarebbe un bene che abbiamo perduto. Siamo cioè di fronte al pregiudizio positivo – ancora presente nel cattolicesimo torinese – per cui il marxismo e il comunismo fossero idee eticamente perfette ma, ahimè, realizzate imperfettamente. Alcuni già avevano compreso invece che il marxismo era un’idea eticamente orribile ma perfettamente realizzata, non un’idea regolativa, ma una società, un’economia, uno stato. La secolarizzazione ha dissolto il marxismo nell’ideologia del materialismo borghese allo stato puro, ovvero un marxismo privato del suo momento rivoluzionario, ma del quale permane la subordinazione di ogni momento spirituale a quello materialistico il cui esito è un mondo senza trascendenza. Questo è l’orizzonte e la sfida con cui la Chiesa deve fare i conti.  Infine, quanto allo stile, l’apparente bonomia di monsignor Repole non deve trarre in inganno. Si dice che qualche mese fa con gli ordinandi sia stato chiaro: «Ogni magistero al di fuori del mio non sarà tollerato».

Il vescovo di Asti, monsignor Marco Prastaro, illustrando le indicazioni per il nuovo anno pastorale ha fornito alcuni numeri. Nel 1970 la diocesi aveva 217 preti, nel 1990 erano 160, nella prima decade del 2000 vi erano 90 sacerdoti, oggi sono 63 di cui 13 in pensione e 24 sopra i 70 anni. Da sei anni non è più entrato un ragazzo in seminario. Il rimedio, secondo il prelato, starebbe nel cammino sinodale, nel rilancio degli organismi di partecipazione e nella corresponsabilità femminile nella gestione delle varie realtà ecclesiale. Insomma, a fronte dell’ammalato grave, la somministrazione di qualche placebo. Intanto, è di oggi la notizia che quest’anno il numero degli ingressi nei seminari della Fraternità San Pio X sarà di ben 79 giovani, il numero più alto da quando monsignor Marcel Lefebvre nel 1970 eresse l’istituto.

Brillante intervento di don Michele Roselli, direttore dell’ufficio catechistico e vicario episcopale, al recente congresso diocesano dei catechisti di Bologna tenutosi il 9 ottobre scorso. Di lui il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo della città felsinea e presidente della Cei, ha tessuto i pubblici elogi.

Ciò che unisce le esternazioni dei tre ecclesiastici è l’insistenza, come premessa indispensabile e in ogni occasione, sulla «fine della cristianità» – che è un dato di fatto dalle molteplici conseguenze e dagli esiti ben visibili – ma che per loro costituisce una sorta di alibi, di scusante a fronte di tutti i disastri, un mettere le mani avanti per dire che se la Chiesa si spegne è inutile lamentarsi perché siamo «in un cambiamento d’epoca» e allora se i bambini non sanno più fare il segno della croce si fanno delle grandi risate, l’importante è superare «la catechesi in vista dei sacramenti» con la convinzione che «non dobbiamo essere salvati, ma lo siamo già» e quindi innovare accompagnando il cambiamento e assecondandolo, come se da cinquant’anni non si facesse altro.

Ieri si è tenuto in un clima piuttosto intriso di grigiore, l’incontro del vescovo di Torino con il clero della diocesi. Introdotto dagli esangui canti, dalle schitarrate del liturgo don Paolo Tomatis e dall’inevitabile premessa sulla fine della cristianità, monsignor Repole ha incentrato la sua assai breve riflessione su come ricollocare la Chiesa sul territorio, cioè come «rimanere la Chiesa di Gesù Cristo, l’unico Salvatore». Quindi richiesta di disponibilità, «senza geremiadi e senza utopie», ma un esercizio – fatto con i laici – per «intravedere dei germogli di novità per orientare il ripensamento». I commenti dei più sono stati di una certa delusione in quanto il «ripartire dall’ascolto» appare qualcosa di già visto.

Giunge intanto notizia che il nuovo rettore del seminario potrebbe arrivare da Savigliano dove, insieme alla vicina Bra dei fratelli Garrone (Giorgio e Gilberto), già è attiva una piccola comunità formativa. Il super parroco di Savigliano è Paolo Perolini, classe 1967, ordinato nel 1993 e “boariniano” doc.

Ha destato non poco scalpore la notizia, ufficializzata lunedì 10 ottobre, dell’accettazione da parte del papa delle dimissioni del vescovo di Lugano, Valerio Lazzeri, ordinato nel 2013, il quale ha deciso di ritirarsi alla non veneranda età di 59 anni. La decisione era nell’aria, motivata blandamente dalla stanchezza del presule unita da un senso di diffuso malcontento nel clero locale. Negli ultimi anni la diocesi di Lugano sembrava essere diventata l’icona di un compromesso adatto a conciliare tutti gli opposti, grande da poter accogliere preti se non problematici, almeno un po' sopra le righe. Nei nove anni di episcopato, gli scandali coinvolgenti direttamente o indirettamente la diocesi non si contano. Vale la pena riflettere su un gesto così eclatante, frutto dell’accettazione di una realtà probabilmente percepita come irriformabile o troppo faticosa da gestire, che pone interrogativi non solo sulle scelte romane dei vescovi ma sulla generale tendenza alla managerizzazione (e marginalizzazione) della figura del vescovo, sempre più amministratore, sempre più solo e impotente di fronte alla forza della secolarizzazione e alla debolezza del cristianesimo. Come in Piemonte, dove una volta c’erano seminari e fedeli da battezzare, ora rimangono solo fragilità – così oggi si chiamano i peccati – da accompagnare e chiese da chiudere.

Le celebrazioni del 60° di apertura del Concilio Vaticano II sono state tutte in tono minore, quasi un dovere. A fronte dello stato in certi casi quasi comatoso in cui versa la Chiesa, ben pochi oggi azzardano i toni trionfalistici di qualche anno fa. Naturalmente, non si è udita nessuna parziale o timida critica ma la consueta narrazione fatta di successi – «primavera», «balzo in avanti», «nuova Pentecoste» – alle quali però non crede più nessuno. Nella sua omelia in S. Pietro, il papa Francesco non ha citato nemmeno una volta il suo predecessore, Benedetto XVI, il quale non solo dedicò al Concilio gran parte del suo magistero ma di quell’evento fu, in quanto teologo del cardinale Josef Frings, uno dei protagonisti assoluti. In compenso abbiamo ascoltato una poco credibile intemerata contro i progressisti e i tradizionalisti quali «atti di infedeltà» che generano polarizzazioni, salvo che mentre contro i secondi non perde occasione di scagliare i suoi anatemi per i primi – vedasi sinodo tedesco – sempre si tace.

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