TRAVAGLI DEMOCRATICI

Pd, la sfida dei capitani coraggiosi: "Orlando non ci rappresenta più"

Dopo il raduno all'auditorium di Roma l'area dell'eurodeputato Benifei si organizza. Il consigliere regionale del Piemonte Rossi: "C'è un gruppo dirigente che ha pensato solo a tutelare se stesso". Inizia il processo di emancipazione e c'è chi guarda a Bonaccini

“Certo sono giovani, chissà se anche loro faranno i turchi”. Nella battuta di un vecchio dirigente dem il retroscena sull’iniziativa di Brando Benifei all’interno del suo partito. Coraggio Pd è il nome che l’europarlamentare ligure ha dato all'assemblea di sabato, quando ha oltre 600 amministratori e dirigenti dem – in gran parte under 40 – all’Auditorium di Roma. Non una mozione congressuale, non una corrente ma allora cos’ha in mente il compagno Brando? “C’è una classe dirigente che in queste elezioni ha pensato a tutelare se stessa e che non ci rappresenta più” è la premessa di Domenico Rossi, consigliere regionale novarese, un apolide di sinistra, che ha raggiunto la capitale assieme a una decina di amministratori locali del Piemonte settentrionale tra cui Emanuele Vitale, assessore a Baveno, Riccardo Brezza, in giunta a Verbania, Mattia Colli Vignarelli dei Giovani democratici di Novara. Da Torino la vicepresidente del Consiglio comunale Ludovica Cioria, il suo predecessore Enzo Lavolta, l'ex deputato e operaio Thyssen Antonio Boccuzzi

È ancora viva la fiammella sotto le ceneri di una sconfitta elettorale che brucia. “Questo gruppo dirigente ha riportato al governo la peggiore destra di sempre” è stato il cuore di uno dei tanti interventi tranchant di sabato, davanti senatore Marco Meloni, braccio destro di Enrico Letta. Qualcuno si spinge a dire che “ora ci riprendiamo il partito”, ma non sembra esserci una candidatura al congresso nel futuro immediato di Benifei, semmai la voglia di giocare in proprio rispetto a quella “sinistra ministeriale” che dopo aver occupato tutte le poltrone ed essersi riciclata sotto ogni stagione e in ogni governo ora viene messa all’indice dalla militanza. L’emblema di un gruppo dirigente ormai logoro è Andrea Orlando: era ministro con Matteo Renzi, lo è stato con Paolo Gentiloni, poi ancora nel governo giallo-rosso di Giuseppe Conte e pure con Mario Draghi. Sempre, ça va sans dire, nel nome e nell'interesse dei più deboli.

“Le stesse persone che si sono acconciate al renzismo, poi all’alleanza con il Movimento 5 stelle e infine ai governi tecnici, il tutto per preservare i propri incarichi, non possono più rappresentarci” prosegue Rossi che in un riferimento a chi “è rimasta vicepresidente del Senato” tira in ballo anche Anna Rossomando, non a caso luogotenente di Orlando in Piemonte, fino a qualche mese fa in predicato di trasferirsi al Csm con l’obiettivo (anche lì) della vicepresidenza. E mentre la parte più genuina (e ruspante) di questo movimento – che ricorda da vicino Occupy Pd per la connotazione generazionale – si alternava sul palco per puntare il dito contro “chi ha pensato solo a se stesso, riducendo il partito ai minimi”, nei conciliaboli a margine c’era chi già ipotizzava un approdo congressuale di tanto fervore. Una opzione sul tavolo potrebbe essere il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, soprattutto se una parte dei capataz dovesse coagularsi attorno a Dario Nardella. Proprio come fecero i Giovani Turchi, e qui torniamo alla battuta del nostro dirigente di lungo corso, quando per emanciparsi dalla vecchia sinistra di Pier Luigi Bersani diventarono la stampella di Matteo Renzi. A differenza loro, che per compiere il parricidio aspettarono l’esito del congresso, Benifei e compagni si stanno muovendo con ampio anticipo. Una evoluzione di quei Giovani Turchi tra i quali allora c’era proprio Orlando.

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