Guerra e pace

Quasi tutti i media, soprattutto i telegiornali Rai, hanno mostrato un approccio decisamente fazioso nel trattare la manifestazione per la Pace organizzata sabato scorso, 5 novembre, a Roma. Una scelta di parte talmente netta che, in altri Paesi, sarebbe stata denunciata all’opinione pubblica come cieca sottomissione dell’informazione al potere politico.

In piazza della Repubblica, combattendo contro uno sferzante vento gelido, si sono radunate in corteo decine di migliaia di persone. Donne e uomini hanno marciato sotto le bandiere arcobaleno, rifiutando di farlo sotto qualsiasi altro vessillo delle parti in guerra, e con slogan quali “disarmo immediato” e “al lavoro per la Pace”. La manifestazione ha voluto rilanciare con forza gli inviti del Papa a un “cessate il fuoco”, i suoi appelli accorati (sempre inascoltati dai governi) volti a trovare spazio per il confronto, ad usare il dialogo al posto delle armi. Il grido pacifista della piazza è stato interpretato da molte testate giornalistiche come un puro e semplice schierarsi al fianco dell’Ucraina, sino a confondere volutamente le parole d’ordine di Roma con quelle di Milano.

Il discorso è infatti molto diverso per quanto concerne il raduno menghino, organizzato della politica all’ultima moda, sensibile al richiamo delle telecamere (oltre a quello delle griffe). Calenda, infatti, ha chiamato a raccolta il suo popolo per reclamare, a detta dei TG, la Pace, ma lo ha fatto lanciando continui messaggi bellicisti. L’ex Ministro ha decorato la sua iniziativa con bandiere giallo-blu di grandezza varia, da piccole a gigantesche; dato spazio all’inno nazionale ucraino e fatto intervenire dal palco numerosi nazionalisti che hanno invocato la “distruzione totale della Russia e dei russi”, oppure (con più moderazione) la “Gloria all’Ucraina”. A fine evento, il leader firmato (da capo a piedi) di Azione è intervenuto chiedendo all’Europa di armare ancora di più Zelenskyj e definendosi “intitolato” (parole sue) a cantare, male e non seguito dai manifestanti, “Bella Ciao”. L’inno dell’antifascismo ne è uscito straziato e vilipeso: Calenda ha dimostrato di non saper andare oltre alla prima strofa, mentre le note sono state accolte nell’indifferenza generale degli astanti (tra bandiere europee e drappi della Nato).

Cosa intendesse fare (o dimostrare) il senatore non è del tutto chiaro intonando (o meglio stonando) l’inno partigiano, che da sempre è anche nel repertorio del Coro dell’Armata Rossa. Qualsiasi cosa avesse in mente, l’informazione RAI gli ha coperto le spalle fotografando e inquadrando solo il palco. I media, infatti, si sono guardati bene dal rivolgere il loro occhio su una piazza numericamente molto al di sotto delle aspettative e che trasudava voglia di interventismo armato.

Mentre si componeva l’appuntamento pacifista, in molti si chiedevano chi avrebbe approfittato dell’evento per avere un po’ di facile visibilità, magari chiamando a raccolta i sostenitori della guerra ad oltranza. Di certo qualcuno avrebbe fatto sventolare le bandiere dell’alleanza atlantica, in mezzo a quelle di Kiev, per contrapporle a quelle arcobaleno. La risposta, forse scontata, è arrivata puntuale dimostrando ancora una volta come la retorica non tradisce mai il suo compito: sostituire la verità, ossia gli scenari di una guerra combattuta per il controllo delle risorse energetiche, con inverosimili appelli alla difesa della libertà europea dalla dominazione russa per legittimare massicci invii di armi italiane sui campi di battaglia.

L’Ucraina è teatro di confronto tra filorussi e filoccidentali sin dai tempi delle cosiddette Rivoluzioni arancioni, le stesse che portarono al governo Yiulia Tymoshenko, ed in cui l’Occidente mise mano rivestendo un ruolo primario. Da quegli anni il popolo ucraino, qualsiasi lingua parli, paga un prezzo altissimo in distruzione e sofferenza: la terra del grano e dei girasoli è diventata, giorno dopo giorno, il campo di marte dove gli Usa e la Russia combattono senza tregua.

L’informazione, degna di questo nome, è purtroppo cosa sconosciuta agli italiani. L’enfasi di guerra ha sostituito ogni residuale visione oggettiva di quel che accade nel mondo. Sarebbe necessario imparare a costruire analisi che tengano conto di tutto, in primis del contesto storico generale, e farlo a maggior ragione quando si rischia una guerra combattuta a suon di bombe nucleari. Ordigni la cui deflagrazione non si limita a creare effetti pirotecnici spettacolari: le conseguenze del gigantesco fungo di vapore radioattivo sulla popolazione nulla hanno a che fare con la trasformazione in supereroi di alcuni personaggi della Marvel.

Sarebbe necessario ricordare ai politici che giocano alla guerra, a coloro che invece hanno interessi economici diretti da difendere nel conflitto, agli sceriffi del mondo, e a Calenda, che ad Hiroshima e a Nagasaki le bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti, ad oggi anche le uniche gettate su città e civili, hanno letteralmente vaporizzato migliaia di persone, condannando i superstiti a perenni quanto strazianti sofferenze.

L’esplosione su Hiroshima, città di circa 330.000 abitanti, ha ucciso 80.000 persone e distrutto il 48% delle abitazioni; gli effetti delle radiazioni continuano a mietere vittime ancora ai nostri giorni. La tecnologia moderna ha consentito di produrre armi nucleari che fanno impallidire la forza devastatrice che venne fatta esplodere sul territorio giapponese: in pochi lampi l’Europa si trasformerebbe oggi in terra bruciata e in un immenso cimitero.

Troppi dottor Stranamore sono usciti dalla pellicola cinematografica per vestire divise o ricoprire incarichi di governo, affiancati da politici che giocano con le pistole convinti di essere nel selvaggio West.  Ancora una volta, tocca al popolo di questo continente, da est a ovest, guardare il potere in volto e dire: “Non in mio nome. Mai più in mio nome”.

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