Rimpiangere la Prima Repubblica

Un tempo, quando si viveva ancora nella Prima Repubblica, era cosa ordinaria aprire il giornale ed imbattersi in scandali maturati nel mondo della politica, in torbidi passaggi di mazzette, in clamorose corruzioni di pubblici ufficiali, in concussioni e raccomandazioni varie. La maggioranza di noi sapeva di vivere in un Paese insensibile ai valori fatti propri dai padri della Costituente, ma nessuno poteva immaginare un futuro dove la Democrazia stessa potesse attraversare una crisi ancor più grave. Il quotidiano scambio di favori tra ministri e imprenditori, il legame della criminalità organizzata con taluni tesorieri di partito e l’indefessa opera dei servizi segreti deviati, in collaborazione con i gruppi eversivi dell’estrema destra, erano elementi di una trama oscura che condizionava pesantemente la vita democratica della nazione e la sua fragile economia. In sintesi, all’epoca, era difficile lavorare, stipulare contratti, vincere appalti o sperare in avanzamenti di ruolo senza il sostegno del politico di turno.
 
Fortunatamente esistevano alcune isole felici in alcune città, dove le giunte amministravano avendo chiaro il bene comune, e i governi, seppur in preda alla furiosa mania di privatizzare, si dimostravano comunque sensibili al rispetto dei primi cinquantaquattro articoli della Costituzione (le norme a garanzia dei diritti assoluti). Di solito, quindi, le istituzioni evitavano di imboccare pericolose derive qualunquistiche.
 
Gli eletti in Parlamento si confrontavano, talvolta anche in maniera accesa, valutando la fitta complessità reale di ogni aspetto collegato alla res pubblica. In quell’epoca, oramai lontana, il sistema sanitario era retto dallo Stato, e l’esecutivo, anche quando affrontava i temi dell’istruzione e della formazione, non obbediva sommessamente alle sole indicazioni provenienti dagli imprenditori. Il legislatore, nella sua opera, mirava a rispettare sia i principi espressi dall’articolo 33 del dettato costituzionale, per cui l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento, che quelli contenuti nell’articolo 147 del codice civile, in cui viene sancito l’obbligo (tra le altre cose) di istruire i figli nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni: precetti fondamentali, ma abrogati in seguito da quei ministri che hanno voluto sconvolgere il sistema scolastico italiano.
 
Negli ultimi anni, soprattutto in quelli a cavallo della pandemia, sono mutati drasticamente i paradigmi a cui la classe politica e la dirigenza del Paese fanno riferimento. I lavoratori, attualmente, sono vittime di un sistema che legalizza e favorisce lo sfruttamento. Oggi si lavora per pochi spiccioli al mese, a volte si assiste addirittura al paradosso di dover pagare per essere assunti.  I dati inerenti la povertà (in cui sono caduti quasi sei milioni di italiani) tracciano i contorni di uno Stato del tutto insensibile al rispetto della dignità dei suoi cittadini, nonché irriguardoso nei confronti della tutela dei diritti civili di coloro che dovrebbe invece proteggere dall’ingiustizia, in primis quella sociale.
 
Una grave degenerazione delle Istituzioni all’insegna del “vivere la giornata”, e frutto dell’incontenibile potere esercitato dalla classi dominanti (quelle ricchissime) sul Parlamento. Ai soliti mali che affliggono la Repubblica si aggiunge ora il disinteresse verso i cittadini, oramai trasformati nuovamente in umili sudditi.
 
La superficialità, da cui deriva la rassegnazione, governa qualsiasi cosa. Guerra, disagio sociale e speculazioni sono temi affrontati con grande leggerezza, di fronte ai quali si cercano soluzioni che la buona pratica definirebbe demenziali, oltre che fallimentari. Il conflitto nucleare non rappresenta più un dramma, se non per pochi pacifisti vintage, mentre il caro bollette (o meglio le bollette folli) viene contrastato prima di tutto per mezzo delle elargizioni di bonus, oppure proponendo campagne mediatiche incentrate sul risparmio e sulle collette a favore dei più fragili.
 
Sconcerta la fretta con la quale i media, in primis i Tg, hanno attribuito ai russi il missile caduto di recente sul territorio polacco, ignorando del tutto le immediate smentite provenienti da Mosca, e allo stesso modo turba l’indifferenza della politica di fronte alle migliaia di famiglie torinesi costrette ad arrendersi al freddo autunnale (poi arriverà quello invernale): anziani, madri e bambini staccati dal teleriscaldamento cittadino per non essere stati in grado di saldare le onerose fatture inviate da Iren. Dimostrazioni incontestabili di sedi decisionali dove è assente la doverosa lucidità di analisi geopolitica (necessaria ad esempio per avviare negoziati di pace), e in cui non esiste la consapevolezza delle pesanti difficoltà che devono affrontare gran parte degli abitanti del Belpaese.
 
A pochi importa che stiano chiudendo le strutture di aiuto sociale, oltre alle piccole attività commerciali, poiché non in grado di reggere i rincari addebitati dai distributori di energia. Una situazione destinata a non risolversi neppure con il sostegno di “Specchio dei Tempi”. Gli appelli solidaristici a poco servono quando lo Stato (da mesi) non sa come intervenire per sostenere il suo popolo; quando il potere pubblico non è capace di attuare misure strutturali di lungo periodo utili almeno a fermare la speculazione.
 
In tanti hanno gridato allo scandalo per la maglietta della X Mas indossata da Enrico Montesano durante le prove di uno spettacolo di Rai 1, ma pochi hanno fatto ragionamenti su come si sia arrivati a un tal degrado del servizio televisivo pubblico.  Un silenzio agghiacciante che svela le gravi responsabilità di chi negli anni ha privato lo Stato delle risorse più utili alla sua crescita, alla tutela della società; che richiama la colpa di chi ha distrutto la cultura, l’istruzione, gli organismi democratici e, in cima a ogni cosa, l’autorevolezza delle Istituzioni barattando la Costituzione con il potere del più forte.   
 

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