Piatta o progressiva, la tassa è un tabù

In Italia è quasi un tabù intoccabile la tassazione progressiva e chi la vuole difendere spesso si appella alla Costituzione, novella tavola delle leggi. In realtà, la Carta non è immutabile e di modifiche ne sono state fatte anche di recente, quindi se si volesse anche questo punto potrebbe essere emendato. Però se si pensa alla cosiddetta flat tax o in idioma nazionale, tassa piatta, è sufficiente stabilire un reddito al di sotto della quale non esiste nessuna tassazione per poter garantire una certa progressione. Non sarebbe una vera e propria tassa piatta perché si avrebbero due aliquote di cui uno a zero, ma si avvicinerebbe molto.

In pratica questo è un discorso teorico, perché il problema principale per gli italiani è la progressione troppo elevata delle aliquote. Detto in altri termini basta poco per saltare in uno scaglione da “ricchi”. Il governo Draghi ha rivisto le aliquote riducendole un po’ per le fasce più basse ed eliminando uno scaglione. La prima cosa che bisogna notare è che non esiste una cosiddetta “no tax area” ovvero un reddito al di sotto della quale non si paga nulla. L’aliquota più bassa in Italia è del 23% per i redditi fino a 15.000 euro, insomma circa mille euro al mese nette. Che senso ha tassare redditi così bassi? Vero che carichi familiari o detrazioni varie possono abbassare quella percentuale, ma rimane l’evidenza che si tassa la povertà. Un’altra aliquota che lascia perplessi è quella del 35%, che prima dell’intervento di Draghi era addirittura del 38%, per i redditi sopra i 28.000 euro. Possono sembrare tanti, ma parliamo sempre di redditi lordi. Senza familiari a carico corrispondono a circa 1.500 euro mensili per 14 mensilità o a circa 1.600 se si considerano 13 mensilità. Non credo che 1.500 si possano considerare un reddito da benestante. Se si ha la fortuna di avere un aumento su quell’incremento scatta il 35% che pare veramente troppo. Non consideriamo neanche i redditi superiori ai 50.000 dove scatta l’aliquota del 43% a cui aggiungere la quota Inps e si arriva a dare allo Stato più della metà. Queste considerate sono solo le aliquote Irpef a cui bisogna sommare la percentuale che va all’Inps o alle varie casse di previdenza di autonomi e professionisti.

È evidente la necessità di rivedere le aliquote Irpef con la necessità di creare un primo scaglione non tassato e l’allargamento degli scaglioni in modo da permettere ai redditi medio-bassi di portare a casa qualche euro in più. Questo sicuramente ha un costo in termini di finanza pubblica, ma è una riforma che si potrebbe realizzare un pezzo alla volta incominciando con l’azzeramento dell’aliquota più bassa che dovrebbe essere la meno costosa da realizzare stante il fatto che chi ha redditi bassi ha anche le detrazioni che abbassano il costo fiscale; inoltre i soldi in più farebbero aumentare i consumi e in qualche modo rientrerebbero nelle tasche dello Stato.

Un riordino di detrazioni e bonus farebbe diminuire i costi per lo Stato, oltre che con un bilancio da 1.000 miliardi all’anno qualche risparmio sembra impossibile che non sia possibile trovarlo. Per esempio si fa un gran parlare del bonus cultura per i diciottenni: se quei soldi andassero a finanziare l’abbattimento dell’aliquota fiscale più bassa non si aiuterebbero le famiglie più povere per tutti gli anni a venire? A tutti fa piacere avere un regalo, ma obiettivamente dare 500 euro a tutti indipendentemente dal reddito non sembra rispondere a criteri di equità. Questo è solo un esempio, ma esistono tante di queste agevolazioni anche alle imprese che andrebbero riviste. Meglio avere un’aliquota bassa per tutti, che un’aliquota alta che poi nel concreto si riduce per questo o quel codicillo particolare aumentando confusione e inutile burocrazia.

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