SACRO & PROFANO

Inviso ai progressisti laici, avversato dalle gerarchie.
Così Torino accolse Ratzinger

Quanti epitaffi ipocriti. Nel 1998 alla conferenza che tenne al Regio era assente tutta la nomenclatura della Chiesa locale, quella che oggi è al potere. In seminario i suoi saggi erano semiclandestini. Lo stringato messaggio dell'arcivescovo Repole. La vicenda Rupnik

Benedetto XVI se ne è andato l’ultimo giorno dell’anno così come ha sempre vissuto, con il suo inconfondibile stile, fatto di umiltà, dolcezza e innata eleganza. Avremo modo di parlare a lungo di lui e del suo magistero che ne fanno un moderno Padre della Chiesa. Il suo pensiero può essere considerato l’ultimo grande tentativo di fare incontrare tradizione e modernità. Joseph Ratzinger è stato il teologo, il prefetto della fede e il papa che si è posto in piedi di fronte alla modernità e ai suoi miti. Oggi la Chiesa è tornata ad essere, come scrisse Jacques Maritain nel 1966, «in ginocchio di fronte al mondo». Da quella prostrazione – frutto non del Concilio dei Padri ma del concilio dei media – la trassero Giovanni Paolo II e Ratzinger non per sfidare il mondo ma per mostrargli semplicemente Gesù Cristo. E per capire quanto Ratzinger fosse avversato bisogna leggere le rabbiose reazioni seguite alla pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus o al motu proprio Summorum Pontificum o il continuo tentativo dei vescovi tedeschi di infangarlo. Perché i suoi veri nemici erano tutti interni alla Chiesa, numerosissimi e adesso al comando. Pensiamo alla mafia di S. Gallo che per anni tramò alle sue spalle fino a farlo dimettere – Vatileaks rispetto agli scandali odierni non è niente – o ai teologi più in vista (molti di loro sono vescovi), uno dei quali, Peter Hünermann, arrivò a fondare un istituto teologico per contrastare il suo pensiero. Oggi i più ipocriti lo piangono, i più sinceri dicono che era un personaggio “complesso e contradditorio” e nei prossimi giorni ne sentiremo di tutti i colori. Ma perché Benedetto era tanto osteggiato? Per capirlo basta rileggere, ma è solo un esempio fra i tanti, il magistrale discorso di Ratisbona, centrato sulla de-ellenizzazione del cristianesimo o la proposizione dei “principi non negoziabili” che i vescovi boicottarono in tutti i modi, così come avvenne per la liberalizzazione del rito antico che il suo successore ha abrogato.

Nell’avversione a Ratzinger/Benedetto XVI, la Torino progressista fu in prima fila. E poiché lo Spiffero ha la pretesa di dire quello che gli altri non dicono, ricordiamo a chi adesso ne tesse le lodi solo alcuni episodi, ma se ne potrebbe raccogliere una antologia.

Nel 1998 il cardinale Ratzinger venne a Torino, invitato dall’arcivescovo Giovanni Saldarini. Visitò e parlò ai seminaristi e la sera tenne una conferenza al teatro Regio ove, platealmente e fragorosamente, era assente tutta la notevole porzione della Chiesa locale progressista, quella che oggi è al potere. I seminaristi del tempo presero a leggere i suoi libri, ma clandestinamente in quanto il rettore – che per la verità ne capiva poco – era contrario. Addirittura, il testo di una conferenza sulla liturgia tenuta da Ratzinger presso l’abbazia di Fontgombault– che oggi è nell’Opera Omnia – fu tradotta e poi stampata a spese di un privato e letta e diffusa quasi di nascosto. Da ricordare che, all’epoca, padre Eugenio Costa S.J. affermava che Ratzinger era l’esponente di un «pensiero nazista» e un vescovo da lui nominato, ora emerito liturgista “grillino”, non risparmiava critiche a Summorum Pontificum scagliando la sua bolla di nomina in latino addosso ai fedeli che gli chiedevano di fare ciò che Benedetto ordinava di fare. Enzo Bianchi, che però oggi – come sembrerebbe – si è addolcito, non lesinava critiche su tutti fronti. Alla proposta di invitare Ratzinger a parlare alla facoltà teologica, l’arcivescovo Severino Poletto si oppose preferendogli il cardinal Walter Kasper. Quando nel 2010 Benedetto XVI venne in visita a Torino, l’ufficio liturgico si oppose al canone romano in latino per la Messa in piazza S. Carlo, per fortuna invano. Uno dei più autorevoli esponenti del “cerchio magico” di S. Lorenzo disse che con l’elezione di Francesco la Chiesa «si era liberata di un peso». Per capire il mainstream basta entrare nel santuario di S. Giuseppe di via Santa Teresa retto dai Padri Camilliani dove troverà, sulla sua sinistra, una nicchia in cui attorno al Volto della Sindone, sono esposte le icone del cattolicesimo progressista: LuteroGiovanni XXIIIBonhoefferChe GuevaraKennedyMartin Luther King, il cardinale Martini, i martiri del razzismo e nessuna vittima del comunismo salvo, un po’ nascosto, Florenskij. In simile pantheon Benedetto XVI non troverà mai posto e questo, per chi non si è arreso alla «dittatura del relativismo», non è l’ultima delle sue glorie. Stringatissimo e di circostanza, il messaggio dell’arcivescovo Roberto Repole in occasione della morte di Benedetto XVI e forse è meglio così.

Nessuno più lo ricorda, ma Benedetto XVI nel 2008 fu oggetto di una delle pagine più vergognose dell’accademia italiana quando, dopo averlo invitato, gli fu impedito di parlare alla Sapienza, avendo l’università accettato il diktat di un gruppo di professori tra cui – sembra incredibile – il premio Nobel per la fisica 2021 Giorgio Parisi e con il plauso del paladino di ogni libertà, Eugenio Scalfari, il quale scrisse che, secondo amici gesuiti, Joseph Ratzinger era «un modesto teologo». Invitiamo tutti a rileggere l’intervento che il papa avrebbe dovuto pronunciare e che è un inno alla libertà di ricerca.

Ma come vedeva sé stesso Joseph Ratzinger? Qual era la funzione e l’immagine del vero teologo e, più in generale, del cristiano oggi? Lo scrive egli stesso all’inizio del primo capitolo del suo capolavoro, Introduzione al Cristianesimo, pubblicato la prima volta nel 1969 riferendosi al noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard dove si racconta di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiedere aiuto al villaggio vicino, oltretutto perché c’era il pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clownaveva voglia di piangere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: tutti trovarono che egli recitasse la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. Benedetto XVI può apparire come quel clown, paludato in quegli abiti tramandati dal passato, e nella Chiesa di oggi di lui è rimasto poco. Ma la storia è lunga e soprattutto la Provvidenza è grande e il suo pensiero porterà i frutti domani.

Alcuni lettori ci hanno chiesto di precisare meglio le vicende relative al padre gesuita sloveno Marko Rupnik, l’artistar ecclesiastico la cui storia rivela una estesa rete di complicità e coperture dei suoi presunti misfatti, mentre a tutt’oggi continua tranquillamente a predicare esercizi spirituali, a ricoprire l’incarico di consultore pontificio e a mantenere la cattedra al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. E questo anche dopo l’emergere di gravissime accuse contro il sesto comandamento e la scomunica latae sententiae in quanto riconosciuto colpevole di un delitto gravissimo dal punto di vista canonico, che è quello di aver assolto in confessione una persona sua complice di peccati contro il sesto comandamento. Un sacerdote colpevole di fornicazione, per di più con una persona consacrata, incorre certamente in un peccato mortale, se però questi assolve lui stesso quella persona compie qualcosa di molto più grave, perché è come si impadronisse della misericordia e del perdono di Dio, di cui è soltanto un umile amministratore. Il sacramento diventa così strumento di potere umano, ma questo non è umano bensì diabolico ed è per questo che la Chiesa stabilisce che un delitto come l’assoluzione del complice è ipso facto sanzionato con la pena più grave e cioè la scomunica. Nel caso di Rupnik – non si sa né come, né quando, né perché – la scomunica sia stata rapidamente tolta per cui egli ha continuato a condurre la sua vita di star religiosa. Ricordiamo del   prete artista le sue realizzazioni più note: il rifacimento della cappella Matilde in Vaticano (Redemptoris Mater), la chiesa inferiore di San Pio da Pietralcina a S. Giovanni Rotondo e la discussa cappella del seminario maggiore romano dove una colata di rosso ha fatto letteralmente sparire il quadro della venerata Madonna della Fiducia. Le notizie pubblicate dei suoi abusi erano abbondantemente conosciute dalle autorità ecclesiastiche e sono state confermate dalla Compagnia di Gesù. Ma la domanda che persino il sito parabergogliano Il Sismografo si pone è quella di sapere quanta parte vi abbia avuto nella vicenda lo stesso pontefice essendo egli l’unico abilitato alla remissione della scomunica, ma su questo aspetto il silenzio permane assordante. Secondo alcuni, Francesco ha tre strade: addossare la responsabilità alla Congregazione (oggi Dicastero) competente, dire che sul caso è stato male informato, oppure – ipotesi più probabile – tacere. Una cosa sola è certa: a nessun giornalista sarà mai consentito intervistare il papa sul caso Rupnik.

Sulla Stampa del 24 dicembre Michela Murgia ha preso di mira, con perentorie e apodittiche enunciazioni, il cattolicesimo tradizionale – esercizio in cui si riceve il plauso dei radical chic ma, soprattutto, non si rischia nulla – sollevando un interessante dibattito. Alla tesi – piuttosto debole  e per certi aspetti falsa – della scrittrice secondo cui «solo i cattolici hanno compiuto nella persona di Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa periva di riscontro biblico» contrapponendo quindi una umanità arretrata e «cretina» – per usare un aggettivo qualificativo, peraltro già in uso nei primi secoli per definire i cristiani e di un noto “matematico impertinente” – a una umanità moderna, colta, libera, progressista, intelligente, in una parola – come auspicato dai teologi modernisti – finalmente «adulta» che non crede alle favole, ma che affronta le «proprie contraddizioni». Alla Murgia hanno risposto, nei giorni successivi, prima Vito Mancuso puntualizzando e sistemando diverse questioni, soprattutto sul piano esegetico, e poi Enzo Bianchi, più condiscendente verso le argomentazioni della scrittrice sarda. Ben lontano dalle  altezze di tali controversie, lo stesso 24 dicembre e sullo stesso quotidiano, compariva il grigio messaggio di Natale dell’arcivescovo Repole il quale si è arenato nella retorica, ormai consunta, anche se sempre redditizia, dell’antinomia «centro- periferia», un «inno alla debolezza» come se questa fosse l’ultima parola pronunciabile dalla fede su tutto il limite umano, in un continuo slittamento dal piano etico – debole per tutti – a quello noetico, dove invece almeno l’affermazione delle realtà e dell’Essere, dovrebbe avere spazio. Dio si è fatto «debolezza», non per rimanere prigioniero di essa, ma per liberare anche noi, esattamente come è entrato nella morte, non per rimanervi prigioniero, ma per liberare noi e per questo è Risorto. In questo, consiste «l’irresistibile fascino del Vangelo» di cui parla l’arcivescovo Repole, nella vittoria forte e definitiva sulla morte, su ogni morte, operata solo da Gesù Cristo, unico e necessario Salvatore dell’umanità. Solo se la debolezza di ogni morte è sconfitta dalla Vita, allora è davvero Buon Natale.

Per ritornare a Rupnik – ma anche a Repole – va detto che nella collana teologica diretta da quest’ultimo,  offerta a Benedetto XVI nel 2018 e che lo stesso papa emerito si rifiutò di leggere in quanto comparivano autori, come il citato Hünermann, che avevano duramente contestato il suo magistero, conteneva anche un saggio dello stesso gesuita sloveno dal titolo:  Secondo lo Spirito. La teologia spirituale in cammino con la Chiesa di papa Francesco. Siamo nel 2018 e da quanto dichiarato dal delegato del generale dei gesuiti, la Compagnia, proprio in quell’anno, avviava una indagine su accuse di assoluzione di un complice di padre Rupnik in un peccato contro il sesto comandamento che avrebbe portato poi, nel 2020, all’emissione di un decreto di scomunica, revocato un mese più tardi. Secondo attendibili fonti, al papa invece piacque il saggio di don Roberto Repole, inserito nella collana, dal titolo Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa Francesco, a tal punto che, pur essendo il suo nome fuori dalle terne, lo volle arcivescovo di Torino. Nelle prossime settimane ne esamineremo il contenuto.

Leggi qui il Discorso di Ratisbona

Leggi qui il discorso alla Sapienza

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