SACRO & PROFANO

Niente dogmi, liturgia senza sacro.
Pure la Vandea cuneese si è arresa

Per lungo tempo terra fertile di fede popolare e vocazioni, oggi la Granda fa i conti con i cascami di una contestazione ecclesiale fuori tempo, ideologica e radicale. Il destino periclitante dello Studio Teologico Interdiocesano di Fossano

Avevamo appena licenziato il testo della nota domenicale della settimana scorsa quando ci è giunta la notizia della morte di don Carlo Franco. Con lui il dissenso era radicale, così come lo erano le sue posizioni in materia liturgica. Ricordiamo ancora, anni fa, un colloquio avuto a Reano, dove era parroco, in cui sosteneva che era stato un errore da parte di Giovanni Paolo II la concessione dell’indulto per la Messa antica e che il cardinale Giovanni Saldarini aveva sbagliato ad applicarlo per i fedeli torinesi alla chiesa della Misericordia. In campo musicale non si può non partire dalla sua collocazione all’interno di quel filone di pensiero che, da don Domenico Mosso a padre Eugenio Costa S.J., ha cercato di tradurre il dettato conciliare e diffonderne il verbo nella diocesi di Torino. In quest’ottica, il totem della partecipazione attiva, l’introduzione di nuovi repertori e l’ostracismo del passato rappresentarono i tre punti cardine della loro azione, con esiti peraltro diversificati.

Se, per un verso, Torino fu una delle prime diocesi ad introdurre un repertorio organico e sistematico per la Messa in italiano e cogliere quanto di nuovo e arricchente aveva portato la riforma liturgica, dall’altro questo aggiornamento perse la sua spinta propulsiva, trasformandosi in una stereotipata riproposizione di formule divenute in poco tempo obsolete. Nonostante i pontificati di S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI segnalassero criticità evidenti in certi modi di celebrare e di cantare e nonostante la maturità di esperienze quali quelle della diocesi di Roma o di Milano – per citare le più famose – la diocesi di Torino restò sempre sorda a qualsiasi stimolo di ripensamento che veniva visto con sospetto e con l’aria terrorizzata (e terrorizzante) di chi non riesce ad ammettere i propri errori. Non è un caso perciò che il duomo di Torino – a differenza di molte cattedrali italiane tra cui, per fare un esempio lodevole, quella di Vercelli – non abbia una cappella musicale degna di tale nome o che non vi sia un istituto musicale di livello come quello di certe diocesi d’Oltralpe. O, ancora, che certe spinte trasformative, ancorché ridotte all’interno di qualche comunità parrocchiale – si pensi ad esempio alla dedizione di don Andrea Pacini per il gregoriano o di don Paolo Fini per la musica organistica – non siano mai state prese in seria considerazione. La medesima sorte era toccata ad un organista come Massimo Nosetti, probabilmente percepito come ingombrante e poco malleabile e il suo pare essere il destino di diversi musicisti torinesi, forse a cominciare proprio dall’attuale direttore del coro diocesano, amico di vecchia data di don Carlo e docente molto stimato presso il Conservatorio torinese.

Don Carlo Franco si inserisce perciò nell’alveo di coloro che, pur animati da sincero amore per la musica, non seppero compiere la sintesi tra i propri convincimenti e le esigenze della realtà contribuendo alla stagnazione musicale nelle liturgie delle chiese torinesi e, in particolare, nella chiesa cattedrale. Nonostante ciò, e la sua idiosincrasia verso ogni celebrazione che «sapesse di tradizione», preferiamo ricordarlo nell’atto di proporre all’assemblea, sorridente e in alba, un nuovo canto da imparare, cercando, per quanto gli era possibile e quale espressione di autentico amore alla Chiesa, di «elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (Sacrosantum Concilium, 120). Nel libro Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, pubblicato recentemente, Benedetto XVI, riflettendo su musica e liturgia, scrive che sono tre i «luoghi» da cui scaturisce la musica: l’esperienza dell’amore, l’esser toccati dalla morte e l’incontro con il divino, dove «è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi». Pensiamo che su questo anche don Carlo sarebbe d’accordo.

+++

Il territorio della provincia di Cuneo, la Granda, raggruppa ben cinque diocesi: Alba, Cuneo, Fossano, Mondovì e Saluzzo, i cui territori – per alcune – sconfinano nelle province di Torino, Alessandria, Asti e Savona. La preponderante vocazione agricola e la secolare seminagione della Controriforma o della Riforma cattolica radicarono in profondità e per lungo tempo l’identità fortemente cattolica del territorio e mantennero salda la pietà del popolo, a farne quasi quella che veniva sprezzantemente denominata dai progressisti, la “Vandea del Piemonte”. Si può così dire che mentre a Torino e nelle altre diocesi avvampava la contestazione e le sperimentazioni, la resistenza alla débâcle postconciliare della Granda durò ancora per qualche decennio per iniziare poi a collassare negli Anni Ottanta quando i nuovi vescovi – dal profilo meno esuberante o colto come quello di un Bettazzi ma, nella loro ansia di non «rimanere indietro», determinati e autoritari – decisero che era ora di farla finita con la tradizione e di voltare pagina. Si ebbe quindi una specie di contestazione ecclesiale in ritardo che, proprio perché fuori tempo, fu più ideologica e radicale della prima con conseguenze che soltanto oggi si possono valutare appieno. Diocesi come Mondovì – un tempo fucina di vocazioni – o Saluzzo subirono un tracollo, dal quale non si riprenderanno più.

Scomparsi i vecchi parroci radicati fra la gente, oggi pianure e bricchi della Granda sono popolati – si fa per dire – da preti pseudointellettuali frustrati in possesso di dottorato in teologia i quali, quando non si isolano per scrivere libri che nessuno leggerà, girano come trottole da un paese all’altro per le celebrazioni oppure, con il pretesto di farlo entrare nell’età adulta, si mettono in testa di cambiare la fede del popolo e allora avvengono i veri guasti, nel senso che le chiese, già poco frequentate, si svuotano del tutto. Il vescovo di Cuneo, il simpatico e gioviale monsignor Piero Delbosco, da sempre impegnato nei piani e nelle ristrutturazioni edilizie, è noto in diocesi perché per lui la minima insegna prelatizia, come lo zucchetto, non è altro che «il circo» ed è famoso per essersi proposto, di fronte ad allibiti funzionari della Soprintendenza, per abbattere egli stesso la inutile artistica balaustra del duomo al fine di realizzare lo scempio dell’«adeguamento liturgico». Il vescovo di Mondovi, il lombardo monsignor Egidio Miragoli, ha semplicemente deciso – dopo un inizio autoritario e decisionista che gli ha alienato vasti consensi – che i suoi interessi sono a Roma dove ricopre la carica di componente del Tribunale della Segnatura Apostolica e dove – come il vescovo di Acqui suo corregionale – risiede spesso, sperando infine di approdarvi definitivamente. Il vercellese monsignor Cristiano Bodo, vescovo di Saluzzo, diocesi con un clero anzianissimo, dopo i primi entusiasmi, si è adeguato mentre monsignor Marco Brunetti di Alba cerca di reggere la barca sotto l’occhio di uno dei collaboratori più stretti di papa Francesco, l’albese monsignor Marco Mellino, arcivescovo, segretario del Consiglio dei cardinali e segretario della Commissione interdicasteriale per la revisione generale della Curia romana, l’organismo incaricato di attuare la tanto attesa riforma e che, al momento, pare essersi arenata.

Chi però dà il tono generale al tutto – sembra incredibile ma è la verità – è la minuscola diocesi di Fossano (41mila abitanti e 33 parrocchie per sette comuni), un vero anacronismo, se si pensa che, pur unita in persona episcopi nel 1999, da ben ventitré anni resiste impavida all’unione sede plena con Cuneo, attraverso un processo lunghissimo e che non avrà mai fine. Il suo esponente più fulgido è stato monsignor Derio Olivero, già vicario generale, il quale – pur aspirando a Mondovì – ha dovuto accontentarsi di Pinerolo. L’eminenza grigia di Fossano è però un diplomatico, l’arcivescovo Giorgio Lingua, classe 1960, ordinato nel 1984, nunzio apostolico in Croazia e creatura del defunto cardinale Severino Poletto.

Dello Studio Teologico Interdiocesano di Fossano, che si definisce non come un luogo di introduzione e preparazione agli ordini sacri, ma come una “esperienza teologica”, si potrebbe così sintetizzare lo statuto: “Teologia senza dogmi, morale senza comandamenti e liturgia senza sacro”. Per fortuna i numeri sono da prefisso telefonico, sia numericamente sia intellettualmente. Nel tempo esso ha “prodotto” forse buoni pastori ma ben pochi sacerdoti di Cristo i quali, per diventarlo, hanno dovuto andare a respirare altrove la dottrina cattolica. La teologia di Fossano è così ristretta nella sua mentalità post-conciliare, da risultare – come certo Magistero degli ultimi anni – paradossalmente conservatrice di una realtà che non esiste più, di una contestazione assolutamente superata perché, se non ce ne fossimo accorti, ormai siamo in un tempo post-cristiano, siamo cioè ritornati al paganesimo come ben ci ha spiegato Chantal Delsol nel suo recente libro La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (edizioni Cantagalli 2022).

Un esempio minimo valga per tutto. Si svolgerà all’Issr di Fossano il corso di teologia online dal 9 febbraio al 18 maggio sul tema “Cristianesimo e omosessualità” – che ha ricevuto il plauso di Andrea Grillo – tenuto dai docenti Domenico Degiorgis e don Marco Gallo, quest’ultimo – insieme al monregalese don Duilio Albarello – elemento di spicco dell’Istituto e liturgista creativo. Il corso «non intende offrire risposte ma lavorare sul fenomeno ed arricchire il linguaggio». Lavorare, dice don Gallo, «al linguaggio, alle parole, perché la vita sia onorata e la fede sia praticabile insieme» garantendo che nel corso, oltre a ricostruire seriamente la questione, sarà data voce «sia alle ricerche più significative in ambito teologico, sia a persone e pratiche attive oggi». I promotori dell’iniziativa rivelano dall’immagine scelta una concezione apparentemente gerarchica della Chiesa, quasi che la basilica di S. Pietro coincidesse con essa. Ma è evidente che il corso non si propone la presentazione e la giustificazione della dottrina nota e sancita dal Magistero ma va in cerca di opinioni teologiche ed «esperienze attive». È la teologia umile, cedevole, sostanzialmente inutile a Dio e agli uomini. Funzionale al sistema di auto-dissolvimento del cristianesimo. Sull’ultimo numero della Rivista di Pastorale Liturgica, lo stesso don Gallo ha scritto un articolo dal titolo: “Omoaffettività e liturgia: benedizioni proibite?”. Quattro paginette molto “affettive” dove non si parla di omosessualità ma di omoaffettività. Tanto per confondere le acque.

Di tale situazione, qualche vescovo non completamente obnubilato, si era preoccupato. Non certo per motivi dottrinali – bisognerebbe, prima che all’altezza, esserne consapevoli – ma solo semplicemente per motivi economici in quanto l’Istituto di Fossano – a fronte dei numeri e dei risultati – comporta per le casse delle diocesi costi esorbitanti. Qualcosa a Roma deve essere arrivato perché vi è stata mesi fa la visita apostolica dell’astuto e abile monsignor Luigi Renna, già vescovo di Cerignola e oggi arcivescovo di Catania e con una carriera precedente tutta svolta nei seminari, prima rettore ad Andria e poi, sempre come rettore, al seminario regionale di Molfetta dove i numeri, rispetto a Fossano, sono ben altra cosa. Tutto è rimasto come prima… usque ad consummationem. Chissà però che non vi provveda infine Torino, il cui arcivescovo ha avuto tra i tanti compiti assegnatagli all’atto della nomina, anche quello di riorganizzare gli studi teologici in Piemonte.

+++

Il papa si è lamentato perché il suo viaggio in Africa non ha avuto la copertura mediatica che si aspettava. Padre Antonio Spadaro è corso subito ai ripari e così Iacopo Scaramuzzi, il vaticanista che lo stesso buon padre dicono ha collocato a Repubblica – diventato ormai una succursale de L’Osservatore Romano – ha ripreso a scrivere. Naturalmente, nessuno ha rilevato l’esortazione del papa al clero della Repubblica Democratica del Congo dove ha difeso il celibato dei preti e li ha ammoniti «a non praticare quei vizi che vorremmo sradicare negli altri e nella società». Pochi giorni prima del suo viaggio papa Francesco aveva detto che: «L’esperienza tedesca non aiuta, perché non è un Sinodo, un cammino sinodale serio, è un cosiddetto cammino sinodale, ma non della totalità del popolo di Dio, bensì fatto da una élite». A questa dichiarazione ha replicato a muso duro la presidente dei cattolici tedeschi (ZdK) Irme Stetter-Karp: «Non abbiamo un problema di legittimazione. Coloro che a Roma continuano a scrivere lettere hanno maggiori probabilità di avere questo problema che sono quelli che hanno la più alta posizione elitaria nella Chiesa». Fratelli tutti.

print_icon