Elezioni senza elettori

All’indomani delle elezioni regionali va in onda il solito copione, lo stesso che la politica da molto tempo impone agli elettori. Da una parte le dichiarazioni della coalizione vincitrice, il cui leader esprime gioia, soddisfazione e grande entusiasmo per la clamorosa affermazione del suo candidato alla presidenza regionale; dall’altra i volti cupi degli sconfitti, amareggiati seppur pronti a rivendicare comunque una vittoria, in primis a dispetto dei propri alleati minori, nonché una tenuta sostanziale rispetto alle consultazioni precedenti.

È indubbio che il centrodestra ha battuto il centrosinistra sia in Lombardia che nel Lazio, e che Fontana è stato riconfermato quale legittimo possessore dell’ufficio presidenziale di Palazzo Lombardia. Sembra incredibile che a una gestione così disastrosa della sanità, e dell’emergenza pandemica, corrisponda un premio consegnato con estrema generosità dai suoi concittadini, ma è un paradosso a cui noi italiani non facciamo solitamente troppo caso. Il modello di assistenza pubblica meneghina diventerà quello a cui riferirsi nella riforma nazionale della sanità, e poco importa se per curarci dovremo pagare le cure offerte dai privati. Pochi ricordano come il maggior sostenitore delle convenzioni con le cliniche private, il pio Formigoni, abbia dimostrato, tra uno scandalo e l’altro, la fallacia assoluta del modello incentrato sulla lenta estromissione del pubblico dal servizio sanitario. L’Italia dimentica, e così sia.

La sconfitta del centrosinistra e dei suoi alleati è indiscutibile; anche l’ulteriore perdita di consenso intorno al Movimento 5 Stelle è evidente. Mentre però Conte abbozza una lucida analisi della situazione, seppur con fare che non nasconde la propria delusione, altri iniziano a farneticare immaginando nuove strategie, senza chiedersi il perché di quanto avvenuto. La colpa, come ha dichiarato Calenda sarebbe di chi vota, non di una Politica incentrata sempre più sui personalismi anziché sul collettivo (o sul “Noi”, come direbbe Bersani). I leader del Pd e del cosiddetto Terzo polo si dannano alla ricerca di inedite e promettenti formule da sfoderare alla prossima occasione, ignorando scientemente il dato più importante di tutti: la grande percentuale di astensionismo tra gli elettori.

Tocca quindi, ancora una volta, a questa rubrica evidenziare il vero dato significativo emerso dalle elezioni regionali, così come da quelle comunali del 2021 e delle recenti Politiche: la maggior parte degli italiani non si reca più alle urne; non si esprime per scegliere i propri rappresentanti nazionali e neppure (questo è il fatto che preoccupa ancor più) per mandare i politici nei consigli territoriali di appartenenza. Il Lazio ha toccato la percentuale di elettori più bassa della sua storia, circa il 37%, e la stessa Lombardia ha registrato un 60% circa di astensionisti. I numeri assoluti, raffrontati con le ultime elezioni politiche, parlano chiaro: hanno perso tutti. Le persone invece di votare se ne stanno a casa o vanno a farsi una bella gita fuori porta.

Siamo quindi alle solite. Come oramai avviene da molti anni, il vincitore trionfa grazie al favore del 50% della porzione (pari in media al 40%) di elettorato che ha voluto mettere la croce su un simbolo e poi su un nome.  Di fatto, allo stato attuale, nessun presidente di Regione, presidente del Consiglio e sindaco (ad esclusione di pochi) può vantare di rappresentare la nazione e neppure la comunità, che lo ha espresso con una partecipazione a dir poco parziale.

Quando la società si allontana così tanto dalla politica significa che la prima si trova in uno stato di profonda crisi democratica. Coloro che si astengono dal voto esprimono un grande malessere nei riguardi delle istituzioni, e dimostrano di non riporre fiducia alcuna verso la classe politica che si candida alla guida del Paese. Eppure nessuno si chiede il perché.

Il malcontento viene ignorato bellamente, così come le cause che lo hanno generato e nutrito con generosità. La gente non si reca alle urne perché semplicemente non ha più voglia di farlo, e di sicuro non a causa di mille impegni o della frenesia quotidiana. Grazie a questi alibi, la carta stampata e i telegiornali possono archiviare il fenomeno evitando di approfondirne qualsiasi aspetto.

Disoccupazione, caro vita, bollette stellari, scandali, assenza di qualsiasi risposta ai problemi delle famiglie sono tra le tante ragioni per cui la comunità perde qualsiasi fiducia verso lo Stato, e le sue forme di decentramento. Un disinteresse favorito anche, e soprattutto, da coloro (i professionisti delle aule consiliari) che intendono la politica come un semplice lavoro svolto all’interno dei comitati elettorali. Burocrazie poco trasparenti nell’agire, ma in giro per le strade di quartieri quando occorre procacciarsi il voto di preferenza, hanno costruito un muro invalicabile tra le istituzioni ed i cittadini.

Facile intuire come questo sia il terreno fertile in cui può crescere e prosperare qualsiasi regime, ma purtroppo intellettuali e segretari di partito ignorano del tutto il principio di causa-effetto. Alcuni anni or sono un deputato democratico chiese a un mio conoscente cosa avrebbe votato alle vicine elezioni parlamentari. L’uomo, dopo un attimo di comprensibile incertezza, decise di dire la verità, ossia che non sarebbe andato alle urne. Il parlamentare replicò senza esitazione, affermando che non gli interessava se lui votava o meno: l’importante era che non si esprimesse per altri candidati oppure altre liste.

Le affermazioni del politico potrebbero essere utili per avviare una profonda riflessione sul difficile futuro della nostra democrazia, entrata in agonia a causa della totale assenza di interesse per il bene comune da parte di coloro che, invece, dovrebbero essere al servizio della collettività e del Paese.

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