SANITÀ

Numero chiuso a Medicina "utile, con l'abolizione tanti camici grigi"

La politica trasversalmente (da Cirio a Bonaccini) spinge per togliere il blocco nelle università: "Servono più medici". Anelli (Fnomceo): "Necessario rafforzare le scuole di specializzazione", altrimenti ci saranno laureati che non potranno lavorare

Li chiamavano i camici grigi, per segnarne la triste posizione inferiore rispetto a quelli bianchi, “e quello – ricorda allo SpifferoFilippo Anelli, il presidente della Federazione degli Ordini dei medici – non è stato un bel periodo”. Non che quello attuale lo sia per la sanità, sempre più in debito di professionisti, ma quei medici che laureati, anni fa, non riuscivano ad accedere alle specializzazioni rimanendo in un limbo dalle limitatissime opportunità lavorative è un’immagine che rafforza quella dell’imbuto formativo, “rischio cui si andrebbe certamente incontro se si abolisse il numero chiuso per i corsi universitari, laureando più medici rispetto ai posti disponibili per le specialità”, spiega, dati alla mano, Anelli.

Eppure l’idea di aprire a tutti i corsi universitari continua a fare breccia nella politica, in maniera trasversale, passando dal presidente della Regione Piemonte, l’azzurro Alberto Cirio a detta del quale il numero chiuso “è una follia” al suo omologo dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che da candidato a segretario del Pd torna spesso sulla questione osservando come sia “sbagliato tenere fuori dalle Università i tanti giovani che vogliono provarci, visto che abbiamo davanti anni di penuria di personale”.

Una spinta a riaprire le porte degli atenei che poggia su un’emergenza proiettata verso la cronicizzazione, ma che al contrario rischia di sortire l’effetto contrario a quello voluto. Come riporta Giovanni Rodriguez su Il Foglio abbiamo 4 medici ogni mille abitanti, contro la media Europea di 3,8. Negli Stati Uniti il rapporto scende a 2,5 medici ogni mille abitanti, quindi a mancare non sono tanto i medici quanto gli specialisti. Rimedi-tampone come l’aumento dela soglia massima per andare in pensione a 72 anni, passata nel milleproroghe solo per i medici di famiglia, avranno effetti limitati anche in una regione come il Piemonte dove l’Ordine dei medici di Torino vede su 17.919 iscritti, compresi gli odontoiatri, 2798 nella fascia tra i 67 e i 72 anni, attestando un’alta percentuale di camici bianchi con capelli della stessa tinta. 

Ed è proprio il presidente dell’Ordine torinese, Guido Giustetto, a sollecitare una programmazione attenta, “immaginando oggi, nella maniera più precisa possibile, cosa e come sarà la sanità tra dieci, undici anni. Che tipo di persone si dovranno curare, come si dovrà fare la prevenzione, quali progressi si faranno sul fronte delle apparecchiature, quanti anziani ci saranno…Tra dire: apriamo a tutti le università e fare un ragionamento di programmazione c’è una bella differenza”. Una programmazione che ha uno dei punti cruciali proprio nelle specialità, “dal totale di specialisti che si prevedano servano al sistema sanitario, deve discendere il numero degli accessi alle scuole di medicina. Ma – avverte Giustetto – bisogna fare i conti anche con le università, con la loro capacità strutturale e formativa”.

Un lavoro quello di previsione e programmazione, che sta in capo al ministero, ovviamente su una serie di valutazioni e studi, ma non su richieste che paiono avere sempre più una spinta politica, pur legittima, ma quasi emozionale. Lo testimoniano le lamentele suscitate nei giorni scorsi dai numeri del piano provvisorio per il prossimo anno accademico e le successive richieste avanzate dalla Regione per vederli aumentati per i due atenei piemontesi. Il ministro Anna Maria Bernini ha annunciato che ci sarà, nella stesura definitiva del piano, un aumento dei posti dal 20 al 30 per cento. “La scelta del Governo è apprezzabile e va nella direzione corretta se, come ha annunciato il ministro, si aumentano contestualmente le borse di studio per le specializzazioni. In caso contrario – osserva il presidente di Fnomceo, Anelli – si finirebbe in quell’imbuto formativo che va evitato ad ogni costo”. 

I rischi non finiscono, purtroppo, qui. La carenza di medici, oggi pesante negli ospedali così come sul territorio e una difficile soluzione in tempi brevi avrà i suoi pesanti effetti anche sull’attuazione del Pnrr, con le nuove strutture come gli ospedali e le case di comunità che richiederanno ulteriori professionisti. Prevedere di risolvere il problema contando sui medici di famiglia senza avere oggi la certezza (e soprattutto gli strumenti giuridici idonei) che questi assicurino la loro presenza, può apparire a dir poco azzardato. Le ipotesi di “assumere” i medici di medicina generale come dipendenti non hanno mai fatto, negli anni, molta strada trovando parecchie resistenze. Resta la via della modifica della convenzione con gli ex dottori della mutua, anche questo un percorso non certo tutto in discesa. 

“Il tema del Pnrr lo abbiamo posto ancora l’altro giorno a un convegno sulle professioni sanitarie”, ricorda Anelli. “Noi pensiamo che ci sia bisogno di un intervento straordinario su tutte le professioni sanitarie, rendendo il sistema più attrattivo, sia dal punto di vista economico che delle condizioni di lavoro, e rafforzandolo sul territorio con queste figure che operano in sanità. Il futuro dell’assistenza deve essere d’equipe, dove alle competenze del medico si aggiungono quelle delle altre trentuno professioni sanitarie”.

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