Sociali ma prima di tutto santi tra mangiapreti e grembiulini
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 19 Marzo 2023Cosa ha impedito finora di studiare come in quel Piemonte massonico dell'Ottocento sbocciarono tante vocazioni impegnate verso gli ultimi? Che c'entri qualcosa l'egemonia marxista-azionista? L'integralismo pacifista e la tradizione della Chiesa
Ricevendo venerdì scorso i membri della Congregazione di San Giuseppe fondata a Torino da San Leonardo Murialdo, uno dei grandi “santi sociali” piemontesi, papa Francesco ha tenuto loro una bella allocuzione iniziata ponendo alcuni interrogativi che meritano di essere sottolineati: «Ci incontriamo nel 150° anniversario di fondazione della vostra Congregazione. Infatti, il 19 marzo 1873 San Leonardo Murialdo fondava la Pia Società di San Giuseppe per la cura e la formazione soprattutto dei giovani operai. A me fa pensare tanto questo tempo, lì, nel “fuoco” – diciamo così –, nel centro della massoneria, a Torino e in Piemonte, tanti santi, tanti! E dobbiamo studiare perché proprio in quel momento. E proprio nel centro della massoneria e dei “mangiapreti”, i santi, e tanti, non uno, tanti. Dunque ha fondato a Torino, in questo contesto duro, segnato da tanta povertà morale, culturale ed economica, di fronte alla quale non è rimasto indifferente: ha raccolto la sfida e si è messo al lavoro, in mezzo alla massoneria».
Veramente un bell’oggetto di studio per gli storici i quali – a differenza di un Franco Bolgiani che non esitava a qualificare don Bosco come prete reazionario e ultramondano – hanno ridotto i “santi sociali” alla stregua di democristiani ante litteram o a precursori del Vaticano II (sic!). Come sanno bene coloro che soltanto abbiano qualche dimestichezza con la materia, essi erano invece, a fronte di un clero subalpino ancora inquinato dal giansenismo e pervaso di liberalismo – gli odierni progressisti – intransigenti e fedelissimi al papa e proprio per questo aperti al sociale e ai bisogni del popolo. Don Bosco, amatissimo da Pio IX e avversato dall’arcivescovo di Torino, fu un avversario implacabile delle sette e cioè della massoneria alla quale aderivano i maggiori esponenti della classe dirigente sabauda. Così come avverso ai liberi muratori era il Murialdo, attento alla condizione della classe lavoratrice ignorata e sfruttata dalla borghesia massonica. Al papa si potrebbe replicare che il tema non è mai stato adeguatamente studiato a causa del pregiudizio anticattolico di quella cultura di radice marxista-azionista da sempre egemone in città e alla quale, dal post Concilio in poi, è subordinata quello che resta della cultura cattolica. In tal modo, figure come San Giovanni Bosco, San Giuseppe Cafasso, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, San Leonardo Murialdo, i beati Francesco Faà di Bruno, Clemente Marchisio, Federico Albert, Pio Perazzo per dire soltanto dei maggiori, sono diventati i “santi sociali” dimenticando di dire che non furono santi perché sociali ma sociali perché santi.
Nemmeno in seminario si studiano questi giganti della santità, locale e universale, perché darebbero «una immagine di chiusura» e si prediligono le tristi biografie dei preti operai e del loro neomarxismo di complemento. Una occasione mancata perché si darebbe invece ai giovani un’immagine chiara di che cosa debba e voglia dire essere un sacerdote rispettando, oltretutto in maniera straordinaria, quel carisma della diocesanità, tanto decantato da alcuni ma nella pratica dimenticato.
La massoneria ha però avuto degli adepti anche nelle alte sfere della Chiesa. Secondo alcuni, il più famoso è senz’altro stato monsignor Annibale Bugnini (1912- 1982) autore e deus ex machina della riforma liturgica conciliare. Venutone a conoscenza, Paolo VI incaricò il Sostituto monsignor Giovanni Battista Benelli di chiamarlo al telefono e di comunicargli che il Santo Padre lo mandava internunzio in Iran dando inoltre disposizione che non si presentasse mai più al suo cospetto; ma non solo, il papa fece cardinale, al posto di Bugnini, il padre cappuccino Ferdinando Antonelli (1896-1993), grande liturgista che nel suo diario – pubblicato da Nicola Gianpietro con il titolo Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma 1998 – ha raccontato con quale superficialità e ideologismi lavorava la Commissione, manovrata da Bugnini, incaricata di attuare la riforma liturgica conciliare.
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Diceva il compianto cardinale Carlo Caffarra, commentando il primato della prassi sulla dottrina che dal 2013 connota la vita ecclesiale: «Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante». Sembra che un vescovo “boariniano” di una diocesi piemontese dal glorioso avvenire dietro le spalle, ad un suo prete che gli chiedeva di poter intraprendere gli studi di teologia dogmatica abbia risposto, a muso duro, che lui della dogmatica «non sa che farsene». Infatti, i risultati si vedono tutti e non basterà la visita del papa a rianimare un corpo ecclesiale agonizzante e nemmeno la messa in pratica di una pastorale che, se poteva funzionare in Kenya, sulle ridenti colline della sua diocesi ha tutte le caratteristiche della cura fallimentare.
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Sempre in tema di ignoranza, continua da parte dei celebranti o, più frequentemente, di “colti” diaconi –per non parlare di qualche chiericona – l’abuso di impedire la comunione in bocca. Richiamare per costoro le norme non serve a nulla in quanto: a) non le conoscono; b) obnubilati dall’ideologia, anche quando le conoscessero, le rifiuterebbero sulla scorta di quanto gli hanno insegnato i cattivi maestri della liturgia. Potrebbe perciò soccorrere quanto recentemente ha scritto Enzo Bianchi, il guru del cattolicesimo progressista: «Impedire la comunione in bocca e inginocchiati è veramente voler imporre, obbedire a un’ideologia, non alla fede, è veramente far guerra tra fratelli e sorelle, non fare comunione». Disobbediranno anche a lui?
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Luis Badilla Morales è un giornalista cileno, responsabile del sito di informazione religiosa Il Sismografo, molto letto in ambito cattolico. Dal 1973 in esilio politico in Europa e con un passato da ministro nel governo di Salvador Allende in Cile, Morales ha lavorato per anni alla Radio Vaticana ed ha una conoscenza non superficiale delle dinamiche ecclesiastiche. Partito su posizioni di entusiasmo filobergogliano, la sua creatura è venuta assumendo – a contatto quotidiano con la pratica di governo della Chiesa di papa Francesco – un moderato ma più critico e realistico distacco, soprattutto nel campo dell’informazione, sia quella ufficiale, sempre più sgangherata e scomposta, sia in quella dei vaticanisti dove a predominare, più che l’obiettività professionale, è un acritico ossequio nei confronti del papa che non trova confronti nemmeno con i tempi di papa Pacelli.
Ecco come Morales ha commentato le stucchevoli celebrazioni del decennale di Bergoglio: «Si assiste da alcuni giorni, in buona parte della stampa italiana e anche in alcuni paesi europei e latino-americani ad una sorta di telenovela glorificante su dieci anni del papato di Francesco. È giusto e anche doveroso sottolineare questa ricorrenza, ma ciò che la sta svuotando di senso e rilevanza è il modo con cui un certo gruppo di giornalisti di testate presentano questo bilancio. Neanche un minimo decoro di carattere critico. Per ogni problema dell’umanità c’è la bacchetta magica di Papa Bergoglio. Il livello di papolatria è così sgradevole da rendere difficile la lettura di molto testi o la visione di servizi televisivi. Sembrerebbe che su molte scrivanie giornalistiche giri un formulario da riempire».
Il Vicario di Sua Santità per la Città del Vaticano ha annunciato che in occasione del decennale del papa ogni secondo martedì del mese si svolgerà la sera in piazza San Pietro l’Adorazione Eucaristica, anche al fine di accogliere i pellegrini che l’indomani parteciperanno all’Udienza generale ed in vista del Giubileo del 2025. All’ottima e assai apprezzabile iniziativa non ha però corrisposto la partecipazione dei fedeli e la piazza è apparsa desolata come non mai. Sarà l’effetto Francesco che, quando deve misurarsi fuori dai clamori mediatici ma con la fede dei comuni cristiani, fa sempre flop?
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Sul settimanale diocesano di Torino, Enrico Peyretti torna sul dilemma morale se accettare che si diano armi al paese aggredito per difendersi oppure no lasciando che l’aggressore prevalga con la resa del debole davanti al più forte. La risposta starebbe nel «male minore» oppure in una fantomatica «terza via» non violenta come avvenne – ma sono secoli fa e in tutt’alto contesto – per la questione dell’Alto Adige- Sudtirolo. Questa soluzione si avrebbe però soltanto dove uno dei contendenti non coltivi pretese imperiali, superiorità nazionalistica etc. Esattamente come nel caso concreto della Russia di Putin che, insieme all’Ucraina, non viene mai nominata nell’articolo dell’ex prete torinese, quasi che il conflitto che da un anno insanguina l’Europa si svolgesse fra due entità astratte. L’intervento esprime bene le posizioni di quel pacifismo cristiano segnato più che dalla non-violenza dalla anti-violenza integrale.
Certo la guerra è sempre una sconfitta e un male ma le società democratiche sono costrette a farvi a volte ricorso e affidano allo Stato l’uso esclusivo della forza regolata dalla legge e vincolata ai principi fondamentali sanciti dalla carta costituzionale e dal diritto internazionale e perciò gli uomini in divisa assumono su di sé l’onere della violenza per la difesa da un male arbitrario ingiustamente violento come potrebbe essere una aggressione che infrange l’indipendenza e la sovranità di un paese. Il pacifismo promosso da un certo mondo cattolico non distingue tra violenza legale e violenza criminale, per alcuni la difesa legittima e legale degli ucraini è violenta e quindi è un male esattamente come lo è l’aggressione ingiustificabile dei russi. Noi non abbiamo, per fortuna, vissuto i bombardamenti o la violenza nazifascista e non viviamo sulla nostra pelle la violenza russa; quindi, abbiamo orrore della violenza ma abbiamo anche il privilegio di non dovercene assumere il peso morale, quel fardello che impose l’obbligo di dover impugnare le armi e che spinse molti giovani ad aderire alla Resistenza. I pacifisti pensano invece che questo fardello morale oggi debba gravare solo sulle coscienze dei “bellicisti” ma, come diceva Pannella – che di pacifismo aveva una certa pratica – «dove c’è strage di Diritto, c’è strage di popoli». Per questo occorre supportare la difesa del popolo ucraino e accettare di assumersene anche il peso morale. Per questo la dottrina cattolica della guerra giusta o come disse Gaudium et Spes «la legittima difesa in campo internazionale» della tutela dei diritti dei popoli nell’ambito del bene dell’intera umanità non ha perso il suo valore.