SACRO & PROFANO

L'Essere e il non essere, la Chiesa alla ricerca dell'ontologia perduta

L'invito dell'arcivescovo Repole ai suoi preti: "Recuperare il senso del ministero spirituale" in un mondo segnato da individualismo e narcisismo. Il "fatto" della Risurrezione. Ancora sulla liturgia: dal vescovo in monopattino al celebrante rapper a don Biker - VIDEO

Alla Messa crismale del Giovedì Santo che ha visto riunito il clero al Santo Volto, l’arcivescovo di Torino monsignor Roberto Repole nella sua omelia è partito dalla constatazione che siamo immersi in un mondo «segnato dall’individualismo e dal narcisismo, che crea tantissime ferite» e che produce una «cultura che ci fa vivere non secondo la natura, ma da snaturati, dicendoci che si vive davvero quando si vive per sé», generando solitudini, specie fra giovani e anziani. Ha poi rivolto, fra gli altri, un accorato invito ai suoi preti a «recuperare tutti il senso del ministero spirituale che ci è stato affidato, un ministero e un servizio che serve cioè a permettere a Dio di trovare una breccia nei cuori aperti degli uomini, perché tutti e ciascuno avvertano che soltanto nella comunione con Dio c’è vita. Un ministero capace di permettere ai cuori di aprirsi gli uni agli altri, in una comunione che ci rende davvero persone, perché solo così, in questa comunione c’è vita».

L’arcivescovo ha anche detto che il corpo di Gesù diventerà con la risurrezione «un corpo spiritualizzato, pneumatico». Benedetto XVI, riflettendo nel suo libro Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione, così spiegava la natura della risurrezione di Cristo che è «un evento dentro la storia che, tuttavia, infrange l’ambito della storia e va al di là di essa». Con alcune importanti distinzioni: «Gesù non è un fantasma (uno “spirito”). Ciò significa che non è uno che, in realtà, appartiene al mondo dei morti, anche se può in qualche modo manifestarsi nel mondo della vita, perché è essenziale il fatto che con la risurrezione Gesù non è stato rivitalizzato, un qualsiasi singolo morto in qualche momento, ma nella risurrezione è avvenuto un salto ontologico che tocca l’essere come tale, è stata inaugurata una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo ambito della vita, dell’essere con Dio». Ecco la parola proibita – ontologia – quella che non sentiamo più pronunciare dai nostri vescovi e teologi – posto che sappiano cosa significhi – se non per deprecarla.

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Partito monsignor Guido Marini come maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie – diventato vescovo di Tortona – anche le liturgie papali cominciano poco per volta a essere smantellate. La scorsa Domenica delle Palme, oltre al papa che presiedeva la benedizione degli ulivi con la stola sopra il cappotto, si è assistito per la prima volta alla sparizione del crocifisso sull’altare, così da rendere lo stesso sempre più simile al tavolo del banchetto. Possiamo immaginare l’intima soddisfazione di quei liturgisti – specialmente torinesi – che da sempre hanno deprecato quella presenza sull’altare, non mancando di riprendere i preti che ancora si ostinavano a collocarvi la croce, ultimo richiamo alla Messa come sacrificio e alla quale Benedetto XVI tanto teneva e sulla quale scrisse: «Tra i fenomeni assurdi degli ultimi decenni, io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore?» (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia). Siamo così tornati ai tempi di monsignor Piero Marini, che in qualità di cerimoniere all’epoca di San Giovanni Paolo II vigilava sulla liturgia papale perché si adeguasse sempre di più ai nuovi canoni e che fece indossare al papa l’incredibile piviale fosforescente durante l’apertura della porta santa per il Giubileo dell’anno 2000. Pupillo e collaboratore di monsignor Annibale Bugnini, come il suo maestro Piero Marini non è stato esiliato ma, per adesso, l’agognata porpora non ancora è arrivata. Se mai arriverà.

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Per ritornare alla riforma liturgica e alla sua creativa attuazione, è diventato virale e sta facendo il giro del mondo il video di quel vescovo che per celebrare la Messa arriva all’altare della cattedrale in monopattino. Come ha commentato Silere non possum: la maggior parte dei giovani, oggi, dice di non venire in chiesa perché è un ambiente di vecchi ridicoli. Come dar loro torto? Così il video del patetico padre Rap come quello di don Bike, il celebrante in casco da motociclista, ampiamente mostrano come ogni ridicolaggine sia ormai permessa nella Chiesa, salvo la Messa in latino, per la quale si escogitano sempre nuove norme per farla estinguere.

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Le classi primarie dell’Istituto Sociale di Torino – quello che resta dei gesuiti in città – hanno preso spunto dalla Easter Bonnet Parade, l’annuale sfilata di cappelli e vestiti stravaganti a tema pasquale di New York, per realizzare copricapi originali e per scambiarsi gli auguri. L’ideologia woke del politicamente corretto ha fatto breccia anche in quella scuola che ancora pare definirsi cattolica.

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Qualche settimana fa il teologo ed ex prete Vito Mancuso ha pubblicato un articolo sull’episodio biblico della Genesi (Gen 22) nel quale Dio chiede ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio Isacco, sostenendo tesi che furono già di Shulamith Hareven e Amos Oz: Abramo fallisce in tutto perché avrebbe dovuto, in nome della propria coscienza, ribellarsi alla richiesta di Dio. Scrive infatti Mancuso: «Sono convinto che abbiamo bisogno di liberarci di un’immagine divina cui dire sempre “sì comandante” per alzare al suo posto la bandiera della coscienza». In sostanza, la tesi postula che la volontà di Dio avrebbe dovuto essere mediata dalla coscienza stessa di Abramo, il quale sa, meglio di Dio, ciò che è bene e ciò che è male». Per una persona di fede la questione è necessariamente più complessa. La fede infatti si inserisce nelle profondità dell’umanità del credente e, almeno per noi cristiani, nello stretto rapporto di intimità con Cristo avviene un dialogo continuo, una «dinamica» nella quale da un lato esprimiamo le nostre legittime considerazioni e volontà e dall’altro sappiamo – per fede – che il modello che vogliamo e dobbiamo seguire è uno solo: Crsito che obbedisce al Padre: «Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8, 30).

Nel brano evangelico della risurrezione di Lazzaro, la grandezza del miracolo nasconde alcuni particolari come il fatto che Cristo, alla notizia della malattia dell’amico, non si precipita da lui ma si trattiene nel luogo dove si trovava per ben due giorni (Gv 11,6). Non sappiamo per quale ragione non sia subito accorso per guarirlo o anche solo per confortarlo, una ragione però ce la offre poco dopo: la malattia è un mezzo perché il Figlio di Dio venga glorificato. La morte genera dolore, Marta e Maria e gli amici sono nell’angoscia. Possiamo dunque affermare che Cristo scelse consapevolmente di lasciare che la malattia di Lazzaro svolgesse il suo corso letale, anzi possiamo dire che la scelta fu del Padre e che il Figlio, ancora una volta ubbidiente, aderì pienamente alla sua volontà. Dalle lacrime che Gesù stesso versò a Betania per ben due volte, come riporta il testo evangelico, comprendiamo la partecipazione alla sofferenza per la morte dell’amico. La coscienza, la nostra personale coscienza, ci direbbe che ha sbagliato, ci direbbe che la sofferenza va evitata a tutti costi, ancora più di quando il progetto del Padre è quello di far risuscitare Lazzaro. Perché dunque infliggere del male? O forse sarebbe meglio chiedersi: la morte, il male, il dolore che Marta e Maria e lo stesso Gesù hanno patito che senso hanno? Se infatti noi facciamo discendere le nostre scelte solamente dalla nostra coscienza, inevitabilmente ragioniamo, nella migliore delle ipotesi, come esseri umani buoni e anche onesti, ma non secondo Dio. La nostra coscienza spesso non è capace di distinguere il bene dal male e come potrebbe comprendere le strade di Dio? In particolare, quando queste ci sembrano sbagliate tanto da mettere in discussione la vita di coloro che amiamo, come Abramo con Isacco o, addirittura, la nostra come Gesù nel Getsemani? Se dunque la coscienza ed i principi morali di ciascuno, diventano il parametro per giudicare le nostre azioni e indirizzare il nostro agire, non sarà possibile elaborare il male, il dolore, sia individuale sia collettivo, male e dolore che ci accompagneranno sempre ma soprattutto non sarà possibile quella conversione che muove dalla convinzione che siamo nelle mani del Padre che ci ama ed è fedele alle sue promesse.

«Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo» (Salmo 44). Queste parole dovrebbero essere incise a corona di ogni crocifisso, soprattutto quelli più realistici. Ma come si fa a dire che quell’uomo, torturato e morente sulla croce, è il più bello tra i figli dell’uomo, come si fa a dire che proprio lui è il benedetto da Dio? Solo la fede in Dio ce lo può far dire. Se non siamo disposti a prendere su di noi il giogo soave e leggero di Cristo saremo costretti a caricarcene di molto più pesanti e per nulla soavi.

All’articolo di Mancuso nessun chierico con velleità intellettuali – che pare abbondino a Torino – ha osato replicare e questo dice quanto la Chiesa, pure avendone gli strumenti, non abbia più il coraggio di sfidare o quantomeno di reagire alle provocazioni di ideologie apparentemente umanistiche. Forse perché la pensano esattamente come Mancuso.

Indirettamente, ci ha provato il cardinale padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia con una sferzante meditazione – tutta da leggere – tenuta il Venerdì santo in San Pietro davanti al papa dove ha indicato lo scopo dei cristiani che oggi è quello di «trattenere i credenti dall’essere attirati dentro il vortice del nichilismo che è il vero “buco nero” dell’universo spirituale e far risuonare l’ammonimento sempre attuale del nostro Dante Alighieri» (Paradiso V): “Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: non siate come penna ad ogni vento, e non crediate ch’ogne acqua vi lavi”.

Credit foto apertura: Mihai Bursuc per Diocesi di Torino

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