La miseria non fa tendenza

Una quindicina di barelle, riadattate alla meglio a simulare letti, su ambo i lati del corridoio, in aderenza alle pareti. Da una parte all’altra della lunga fila, medici e personale sanitario camminano a passo veloce nel tentativo di gestire al meglio i nuovi arrivi (la cui collocazione nello spazio assomiglia a una difficile partita di Tetris, il gioco degli incastri in voga negli anni ’90), e al contempo di non abbandonare a sé stessi i ricoverati già in attesa da ore.

L’immagine è quella che chiunque può vivere quando mette piede in uno dei pronto soccorso torinesi: una sorta di terribile bolgia dantesca che prende le sembianze di luogo di cura grazie al lavoro indefesso di professionisti in camicie verde, giallo, blu e bianco. Stazionare per due o più giorni su una barella collocata a ridosso del muro è cosa normale per chi deve ricorrere a un intervento medico immediato. Un passaggio obbligato a prescindere dall’età del paziente, il quale diventa rapidamente un numero a cui è negata soprattutto la privacy (in alcuni casi anche la dignità) e che deve percorrere un sentiero irto di difficoltà pure per recarsi in bagno.

Il ricovero in pronto soccorso non permette di dormire né di curare l’igiene personale in modo adeguato, e getta i malcapitati in uno stato di continua agitazione. Ogni cosa, in quella situazione, diventa gravosa, generando un paradosso in cui il malato, instradato nella medicina d’emergenza a causa di dolori insostenibili, oppure per domare organi interni in stato di incontrollabile ribellione, è spesso diviso tra il rimanere oppure firmare la liberatoria e tornarsene a soffrire in pace tra le mura di casa sua.

In effetti, la sosta nei locali del primo intervento dovrebbe durare il tempo necessario per redigere la lettera di dimissionamento in seguito all’evolversi positivo della patologia, oppure fino al ricovero nel reparto di competenza. Invece, la degenza “di transito” si trasforma spesso in un deposito di persone, ossia in un “non luogo” dove si aspetta che un posto letto si liberi.

È questo il risultato di anni e anni dedicati interamente al culto del “taglio” nel pubblico. Epoca segnata da burocrati solerti, investiti di tale ruolo dalla politica, pagati profumatamente e dediti esclusivamente a sforbiciare qua e là servizi, nel nome del risparmio. I primi a cadere sotto la mannaia di direttori e dirigenti Asl sono stati proprio i posti letto ospedalieri, giustificando la scelta con il richiamo a una ottimizzazione dei costi che, al contrario, avrebbe potuto essere facilmente raggiunta con misure di controllo e di contenimento della spesa sulle forniture sanitarie. Si è scelto, o meglio numerosi governi hanno scelto, di infierire senza pietà sui cittadini, riducendo la capienza ospedaliera pro capite, ma narrando loro la bontà di una misura che avrebbe portato molti malati a essere curati in casa: cosa, a detta dei manager, utile per il morale del paziente, il quale “preferisce casa propria all’ospedale”.

Rimane inspiegabile come i fautori dello scempio del sistema sanitario nazionale ottengano regolarmente la fiducia elettorale da parte di quegli stessi cittadini sempre pronti a lamentarsi (giustamente) per come sia stato massacrato il sistema pubblico. La politica, a dire il vero, è abile nel dare una giustificazione alle privatizzazioni invocando sempre il “diritto di scelta”, secondo il quale una persona deve poter scegliere dove farsi curare oppure in quale scuola mandare i figli: un temibile Cavallo di Troia con cui la armate comandate dai grandi speculatori si insinuano nelle istituzioni della Repubblica, facendole loro.

In tal modo i fondi destinati alla scuola pubblica vengono ridotti per finanziare quella privata, in mano generalmente al mondo cattolico, e alla stessa maniera calano i fondi per la sanità poiché in parte dirottati verso le case di cura di società commerciali, anch’esse sovente di proprietà di enti confessionali. Morale: chi ha un buon reddito può davvero “scegliere” affidandosi al settore retto dal business, sempre più coccolato da onorevoli e consiglieri regionali, mentre a tutti gli altri non rimarrà che sperare in insegnanti instancabili e personale sanitario a dir poco eroico nel perseguire la propria missione, poiché sempre a dover fare i conti con gravi carenze di strutture e di mezzi per poter offrire le cure in modo universale.

Non stupisce, in un contesto del genere, che la neosegretaria del Pd si affidi a una stilista del colore, un’armocromista, per garantire il buon abbinamento dei capi indossati. La cultura del welfare infatti si infrange, avendo la peggio, contro quella liberal-neoliberista, la quale si riduce alla sola lotta per i diritti civili. Una lotta di per sé importante, ma vana se non unita alla difesa dei diritti sociali e che si gioca, in particolar modo, nel rapporto strumentale con la “società dello spettacolo”.

La militanza allora si riassume in qualche intervista, in un paio di ospitate televisive e un reportage curato da un periodico di moda, facendola diventare a tratti grottesca. Un ricco difficilmente può aver a che fare con la discriminazione, per la fede che esercita o per il colore della pelle, mentre la povertà porta in sé la discriminazione più grande in assoluto. L’emarginazione è nello status stesso che deriva dalla miseria ed è uno status con cui i politici, tra la scelta della sfumatura di colore dell’abito e di un paio di scarpe bene abbinate, non amano confrontarsi.

La miseria, si sa, non sarà mai un fenomeno di tendenza; al limite, di massa e drammaticamente reale.

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