Che ipocrisia che fa

Pare proprio che la Rai stia entrando in un’epoca che sarà presumibilmente testimone del suo declino finale. L’azienda radiotelevisiva statale ha resistito per decenni, e con strabiliante coraggio, alla lottizzazione politica. Ha reagito miracolosamente ai bavagli imposti dal potere di turno, nonché alla bigotta censura a cui si volevano asservire i teleromanzi come i programmi musicali di intrattenimento.

Negli anni ’70, decennio in cui la cultura era intrisa di tendenze marcatamente antagoniste al sistema, autori, musicisti e registi furono abili a destreggiarsi tra le maglie del controllo censorio, a sfuggire alla Commissione dal taglio facile. Una libertà difesa faticosamente, poiché tutti i testi, sia che fossero frutto della fantasia di un cantautore che dei produttori del programma di prima serata, passavano al vaglio di coloro a cui era demandata la tutela della morale pubblica.

Giorgio Gaber, Franca Rame, Dario Fò, Fabrizio De André, Enzo Jannacci e tanti altri si salvarono spesso dalle sforbiciate di Stato, anche grazie al prezioso sostegno di alcuni funzionari RAI non perfettamente allineati, ma l’ombra nera della censura a volte aveva la meglio e l’esilio dal tubo catodico diventava purtroppo inevitabile. Un ghigliottinamento di teste pensanti che non impediva però ad alcuni messaggi (di certo etichettati come trasgressivi) di sfondare lo schermo della TV per andare a colpire con vigore il pubblico “da casa”.

La cultura del Paese è decisamente cresciuta per merito di un palinsesto privo di banalità, e scevro di tratti tristemente populisti. Documentari approfonditi, testimonianze, reportage di grande livello si mescolavano ad uno svago (specialmente quello del sabato sera) in cui si rideva senza mai cadere nella volgarità, e tantomeno nella insulsaggine. Tante persone hanno imparato ad ampliare la propria conoscenza del mondo, e dei popoli che lo abitano, grazie alla televisione statale: ricca di proposte, seppur paradossalmente povera di canali.

Le dure leggi di mercato, con l’avvio delle emittenti Fininvest, hanno costretto la Rai ad un adattamento verso il basso. I contenitori del varietà domenicale si sono presto trasformati in piazze, dove giullari strapagati si esibivano in performance adatte a provocare la risata facile; nel frattempo le produzioni sfornavano serie TV strappalacrime i cui protagonisti erano generalmente donne e uomini che indossavano abiti religiosi. La stessa censura si è fatta, di anno in anno, più spietata, sino a manifestarsi con veri e propri editti di scomunica a giornalisti e comici: la satira, in un breve lasso temporale, è sparita dagli schermi della Rai.

Salvo rare eccezioni, tutti si sono allineati al nuovo corso. Le voci dissidenti si sono spente, o hanno trovato casa e lavoro presso altri editori televisivi. Di conseguenza i palinsesti hanno offerto al pubblico minori possibilità per sviluppare la propria curiosità, in cambio di molta noia intellettiva. Un quadro davvero triste, ritraente una decadenza senza possibilità apparente di riscatto, insieme a una continua disaffezione degli utenti televisivi verso conduttori ed artisti vari.

A riprova, di quanto affermato sin qui, è la testimonianza di un fatto recente. Il licenziamento di alcuni protagonisti delle serate proposte dalla Rai e la lettera di addio letta da Luciana Littizzetto, nell’ultima puntata di “Che tempo che fa”, non hanno mosso sentimenti di sdegno nel pubblico. L’attrice ha voluto assestare una zampata graffiante al Governo, e lo ha fatto trattando la libertà di pensiero e di opinione: concetti assolutamente condivisi, ma che si ammantano di una coltre di ipocrisia se usati in quel contesto, e da quello studio televisivo.

La trasmissione “Che tempo che fa” non si è di certo mai distinta per essere una voce fuori dal coro. Specialmente in questi ultimi anni sia Fazio che Littizzetto hanno schernito di continuo chiunque non fosse allineato ai dettati delle veline governative. Per i due personaggi televisivi la verità era sempre solo una (non venivano ammesse repliche o pensieri discordanti), ed era decisa dagli apparati apicali in carica. Una verità assoluta, quindi, scientifica e guerreggiante, a tratti condita con qualche pizzico di ironia dedicata sempre ai soliti personaggi politici, oppure a occasionali gaffes istituzionali. La prassi del conduttore era comunque quella di inchinarsi con grande riverenza nei confronti delle decisioni più significative del premier Draghi e ancor prima di Gentiloni.

Stupisce come un’azienda possa decidere di silurare programmi dall’ottima audience, nonché competitivi con i canali nazionali privati (stupisce e crea sospetti di conflitti d’interesse mai risolti), e che tale scelta non chiami gli italiani a raccolta in piazza per manifestare a favore della libertà di pensiero. I mancati rinnovi contrattuali alle stelle del palinsesto pubblico stimolano, al limite, qualche riflessione sui bei tempi andati, e quindi un pizzico di nostalgia verso gli anni ’60, sino ai ‘90. 

Nessun lutto, quindi, per la scomparsa della libertà di opinione, e per la morte della satira: sono decessi oramai datati di cui oggi abbiamo solo un pallido ricordo. Non sarà una lettera, redatta per una disavventura personale, che improvvisamente evocherà alti valori, che li riporterà in vita.

La coerenza nei confronti della libera opinione è davvero tutt’altra cosa.

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