SACRO & PROFANO

Olivero mette in croce il cristianesimo

Sconcertante presa di posizione del vescovo di Pinerolo sulla querelle scatenata dal Cai: "Chiediamoci se sia giusto che una minoranza metta il suo simbolo in uno spazio comune". L'omelia di Repole e le ambiguità sull'Ucraina della Santa Sede

Per S. Giovanni Battista l’arcivescovo Roberto Repole ha pronunciato in un duomo piuttosto vuoto di fedeli la tradizionale omelia rivolgendosi ai reggitori del Comune e ha rilasciato un’intervista sullo stato della città. Se rispetto agli anni di Cesare Nosiglia in cui la festa del patrono era l’occasione per sciorinare la moltitudine dei problemi sociali che affliggono Torino vestendo i panni del sindacalista (e per questo meritandosi un riconoscimento pubblico da parte della Cgil), un timido cambiamento di accento non si può non rilevare da parte del successore laddove indica la crisi della comunità civile non soltanto nelle disparità sociali ed economiche ma anche nella perdita degli orizzonti di senso. Perciò apprezzabile è il richiamo a S. Tommaso d’Aquino contro la «beatitudine animale» del semplice soddisfacimento dei bisogni sensoriali e animali e la necessità di trovare, anche come città e collettività, «un’identità profonda» e per i cristiani «un’altra carità»  che, oltre a supplire alle carenze del pubblico, sappia offrire la «carità di indicare Cristo e, indicando Cristo, mostrare e dare voce a tutto ciò che le ideologie imperanti troppo spesso non sanno mostrare e a cui non sanno dare voce». Forse a queste ideologie sarebbe stato necessario dare un nome ma comprendiamo che il cattolicesimo del dialogo – spesso fine a sé stesso – impone la prudenza. Che invece non ha avuto il matematico Piergiorgio Odifreddi il quale, commentando l’omelia dell’arcivescovo, ha detto senza tante perifrasi che le soluzioni per affrontare le cause della crisi globale «non si possono trovare già pronte nelle teche dei musei archeologici di Gerusalemme e di Atene. Non c’è santo che tenga, fosse pure San Giovanni».

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Ha suscitato qualche polemica estiva la presa di posizione del Cai che disapprova l’installazione di nuove croci sulle vette in quanto «è anacronistico innalzarne altre», perché «la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale», mentre le vette dovrebbero essere considerate «come un territorio neutro». La croce sarebbe quindi «divisiva» mentre si impongono il dialogo interculturale e nuove esigenze paesaggistiche ambientali. Queste prese di posizioni – poi rettificate parzialmente – hanno seminato il malcontento e alcuni iscritti hanno preannunciato la loro uscita dal sodalizio. Naturalmente il primo ad essere d’accordo con il Cai è stato il vescovo di Pinerolo monsignor Derio Olivero il quale ha rimesso per la stagione estiva la bandana episcopale d’ordinanza e in un’intervista ha detto che «dobbiamo chiederci se sia giusto che una minoranza metta il suo simbolo in uno spazio comune» e ammannendo infine una dotta lezione sulla simbologia della croce: «Pochi sanno che la croce esisteva, come simbolo, ben prima del cristianesimo. La ritroviamo, ad esempio nello zoroastrismo persiano. Aveva molteplici significati. Tra questi, l’incontro dell’orizzontalità, che rappresenta la dimensione umana, con la verticalità, espressione del divino e della trascendenza. Non solo. La croce rappresentava l’incontro dei quattro punti cardinali e dei due diametri di un cerchio, indicando quindi una totalità sia spaziale, sia cronologica, poiché nel mondo antico il tempo era percepito come circolare. Dunque, nel simbolo della croce ci sono domande che interrogano l’umanità intera, cristiani compresi. E se provassimo a ripartire da qui?».

E se provassimo invece – diciamo noi – a ripartire da Cristo?  Insomma, il pensiero di monsignor Derio è un chiaro riflesso di quella forma di sincretismo che, durante il Sinodo sull’Amazzonia del 2019, ebbe una delle sue espressioni più discusse nella processione della statua della Pachamama dalla basilica di S. Pietro all’aula del sinodo e che papa Francesco benedisse nei Giardini Vaticani. Chissà cosa avrebbe detto in proposito un grande innamorato della montagna come il beato Piergiorgio Frassati del quale tra pochi giorni (4 luglio) ricorrerà la memoria liturgica e che aveva ben chiaro come esse – oltre ad essere gioia per i sensi – richiamano ad elevare l’anima a Dio e «a contemplare in quell’aria pura la Grandezza del Creatore».

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Il secondo pilastro del “boarinismo” – forse il più caratterizzante – è di tipo psicologico. Tutto nasce dalla profonda crisi identitaria e numerica della “primavera post-conciliare”: come recuperare qualche vocazione? Come presentare il sacerdozio come un ministero accettabile, non alienante? Come inculcare il «valore della vocazione»? Ecco che a tutte queste domande diede una risposta la Virgo plus quam potens, la Madre Anna Maria Bissi, costola fuoriuscita dalla Congregazione delle suore di Loreto, con il sostegno formale dell’arcivescovo Enrico Masseroni di Vercelli (1939-2019) il quale, nel parlare ai preti, non è mai andato oltre la terminologia di «leadership spirituale» o «animatore di comunità». Ma il supporter reale della Bissi fu l’allora economo e poi vicario generale della diocesi eusebiana con l’arcivescovo Tarcisio Bertone, monsignor Giuseppe Versaldi, oggi cardinale (denominato in Vaticano VerSoldi), il quale ha sempre sostenuto la scelta separatista della Virgo, e tramite la sua potente intercessione, i “boariniani”. Ma andiamo per ordine. Le origini dell’introduzione della psicologia nel seminario di Torino risiedono nel tentativo – non molto riuscito – di rifarsi alla scuola di padre Luigi Maria Rulla (1922-2002) della Gregoriana, con il suo Psicologia del profondo e vocazione del 1978; scuola psicologica di impianto freudiano, moderato personalisticamente, ma inutilmente, e declinata e rimodulata negli anni successivi dai notissimi libretti dei padri Amedeo Cencini e Alessandro Manenti. Ad esempio, pare che senza aver letto Psicologia e Formazione o Psicologia e Vocazione, nessuno nel seminario di Boarino potesse essere considerato «adeguato».

Certamente la psicologia è uno strumento utile, talvolta indispensabile, ma gli errori all’epoca furono molti: elevarlo a criterio di discernimento vocazionale, imporlo di fatto a tutti come “mezzo di pressione” per entrare nel novero degli eletti, strumentalizzarlo per far accogliere il «valore della vocazione» anche a chi (forse) vocazione non aveva, creare una «alleanza affettiva» tra «seminaristi psicologizzati» e superiori che poco o nulla aveva a che fare con i normali rapporti all’interno di una istituzione formativa di garanzia quale dovrebbe essere un seminario. A determinare tali scelte fu certamente la ricerca di un supporto alla fragilità della personalità di Boarino il quale, non brillando di luce propria, cercò riferimenti ed aiuti.

Ma la cosa finì per degenerare, come sempre accade a chi guida senza patente e a chi pretende di usare strumenti senza averne né la licenza né l’abilità. E la degenerazione avvenne sia perché – a quanto si dice – le relazioni psicologiche venivano inviate al rettore e non consegnate agli ignari seminaristi, sia a livello psicoaffettivo e relazionale, tanto che giunse a Torino il Visitatore Apostolico che non mancò di riprovare la prassi. Ma su questo aspetto ritorneremo. (continua)

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Il capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina l’arcivescovo maggiore di Kiev, Svjatoslav Ševčuk, ha rilasciato una importante intervista in cui con franchezza – e a suo rischio – afferma che «il papa non capisce nulla di questo Paese» ponendo poi l’accento sulle ambiguità della Santa Sede: «Vorremmo che papa Francesco si schierasse inequivocabilmente, anche a livello diplomatico e politico, dalla parte dell’Ucraina, condannando gli aggressori. Vorremmo che dicesse chiaramente chi è l’aggressore e chi la vittima».

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Devastationis Custodes

Nei giorni scorsi è stato presentato il progetto dell’interno della cattedrale di Notre-Dame che dovrebbe, secondo le previsioni, essere riaperta al culto nel 2024, con un arredo – di chiara impronta “minimal” – costato 6 milioni di euro. Sarà il trionfo, con i nuovi arredi liturgici, di quella «nobile semplicità» richiamata da Sacrosanctum Concilium. Due aggettivi che se nel primo hanno trovato una certa attuazione, nel secondo – dando luogo alle più incredibili trovate – non hanno generato nulla di nobile ma se mai il prosaico e l’informe, vedasi l’altare – assai simile al “gianduiotto” della cattedrale di Alba – che appare come un meteorite venutosi a conficcare dall’iperuranio in stridente contrasto con la struttura, quella sì veramente nobile, del gotico di Notre-Dame. Ma quello che più ha colpito sono le sedie in rovere di Ionna Vautrin: «traforate e ariose» naturalmente prive di inginocchiatoio, in perfetta aderenza a quella «liturgia malata» che proibisce l’inginocchiarsi. A tale costume, che viene ormai reso quasi obbligatorio, reagì a suo tempo il cardinale Joseph Ratzinger affermando che l’inginocchiarsi «è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente (Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi) a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio perché tale atto non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia» (Introduzione allo spirito della Liturgia, p.182).

La notizia è che quest’anno, interrompendo una tradizione che durava dal 2011 al pellegrinaggio romano di fine ottobre del Populus Summorum Pontificum, ora noto come Ad Petri Sedem, non sarà concesso di celebrare la Messa antica in S. Pietro. Lo ha comunicato il cardinale Arciprete Mauro Gambetti in una lettera specificando che la decisone è avvenuta per ordini superiori e cioè direttamente dal papa. Lo stesso Gambetti è colui che ha quasi vietato fin dal 2021 le Messe tradizionali private nella basilica e così vietate in Novus Ordo imponendo la concelebrazione. Successivamente, lo stesso porporato ha emesso restrizioni sull’uso del latino in tutte le celebrazioni.

Quindi la Messa antica – celebrata fin dall’epoca gregoriana sulla tomba del Principe degli Apostoli – non avrà più cittadinanza, nemmeno una volta all’anno nella basilica di S. Pietro. Mentre lo ha avuto pochi giorni fa un evento profano e cioè il World Meeting on Human Fraternity che ha addirittura avuto la priorità sulle celebrazioni del Corpus Domini. Ispirato all’enciclica Fratelli Tutti, oltre trenta premi Nobel hanno letto una dichiarazione in cui chiedevano un mondo più giusto e fraterno con una congerie di discorsi di una banalità sconcertante e chiuso con una dichiarazione firmata dal cardinale Pietro Parolin. Mai una volta si è sentita pronunciare il Nome di Cristo Signore. L’evento è stato un flop colossale, le sedie in piazza S. Pietro praticamente tutte vuote. Evidentemente il Popolo di Dio non è interessato alle manifestazioni di una chiesa trasformata in ong. In compenso il cardinale Arciprete che nega la Messa ai pellegrini convenuti da tutto il mondo, ha fatto allestire nell’atrio della basilica un gigantesco banchetto per le personalità presenti ai quali è stato servito anche un solenne aperitivo.

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