Duello a distanza tra Madia e Bose. "Parrochessa" al Duomo di Torino
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 13 Agosto 2023Enzo Bianchi si è insediato ad Albiano d'Ivrea e mentre nella sua vecchia comunità si svolgevano le professioni religiose lui presentava al clero la nuova realtà. In cattedrale l'interregno della "canonichessa". Il nuovo libro del vescovo di Pinerolo Olivero
Finalmente Enzo Bianchi, raccogliendo l’ideale testimone di monsignor Luigi Bettazzi, è approdato definitivamente ad Albiano d’Ivrea. La “Casa della Madia” è sostanzialmente finita anche se rimangono i debiti, per il pagamento dei quali, l’ex priore di Bose sta chiedendo offerte. Tutto è dunque pronto per accogliere i buoni borghesi in cerca di qualche sussulto spirituale. Certo la “Madia” di Albiano, se pur ne riecheggia in qualche modo lo stile, non ha il fascino di Bose e, posizionata come si trova nella calura del piano accanto al casello autostradale, non gode dell’incantevole panorama della Serra e la concorrenza non sarà affatto facile. Ma se l’antico monastero conserva il marchio, la nuova casa ha il fondatore e le sue influenti amicizie non faranno mancare ospiti e finanziamenti. A presto – si presume in autunno – partiranno incontri e convegni e sarà interessantissimo vedere come risponderanno i confratelli rimasti a Bose. Ricordiamo che fratel Enzo oltre che monaco e biblista è anche un dottore in economia e commercio.
Il duello intanto è subito cominciato. A Bose infatti – tradizionalmente – la vigilia della Trasfigurazione, nella notte tra il 5 e il 6 agosto, hanno luogo le professioni religiose definitive e anche così è stato quest’anno per fratel Federico e fratel Paolo, giunti al termine del loro probandato. Proprio la stessa sera, pochi chilometri più in basso, ad Albiano d’Ivrea, l’ex priore Enzo Bianchi, nella chiesa parrocchiale, aveva convocato il clero della vicaria per commemorare il da poco defunto monsignor Bettazzi ma, soprattutto – come annunciato nei manifesti – per presentare la «nuova comunità monastica della Casa della Madia». Sarà stata una pura coincidenza?
Ma è di questi giorni una notizia che quasi nessuno ha rilevato. Essa segna un notevole punto a favore di Bose, ma suscita anche notevoli interrogativi in chi ancora possieda qualche minima nozione di diritto canonico. Il 29 luglio, il vescovo di Biella, Roberto Farinella, ha comunicato che il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ha eretto Bose in «Monastero sui iuris di diritto diocesano», la comunità ha cioè ottenuto il pieno riconoscimento canonico non più come «associazione privata di fedeli laici» ma come realtà ecumenica fatta di uomini e donne di diverse confessioni. Ma come può la Chiesa cattolica avere giurisdizione su persone che – pur battezzati cristiani – hanno una diversa fede come i protestanti e gli ortodossi? Questi possono certamente fare vita comune e pregare insieme ai cattolici, ma hanno anche l’obbligo, come lo hanno dei monaci di un monastero canonicamente riconosciuto, di obbedire al papa o di accettare le conclusioni di una visita apostolica che magari – come successo recentemente – estrometta il fondatore? Sono domande elementari che un semplice fedele – anche non «indietrista» - si pone.
Intanto, lo stesso Enzo Bianchi è sceso in difesa del cardinale Angelo Becciu, sotto processo in Vaticano per malversazione e per i quale il promotore di giustizia (pubblico ministero) ha chiesto una condanna di più di sette anni di prigione: «Che un cardinale possa aver commesso delitti meritevoli di una pena del genere è ben poco credibile. Conosciamo bene i cardinali. Non accumulano denaro per sé e tutt’al più fanno errori finanziari per superficialità o incompetenza. Ora una condanna del genere, oltre dall’aver riaperto in Vaticano la prigione, non fornisce volto evangelico all’istituzione. Risuona come dissonante da un lato la condanna e dall’altro a misericordia predicata, da un lato la punizione e dall’altro il perdono cristiano». Non possiamo non condividere quanto affermato dall’ex priore, sia nel merito e sia nel metodo, ma forse bisognerebbe che egli avesse un po’ più di coraggio e dicesse chiaramente che il regista di tutta questa maldestra operazione – sempre evocato e mai indicato nel suo intervento – è uno e uno solo fin dall’inizio: colui che, nella Chiesa e nel suo stato, è supremo legislatore, reggitore e giudice. Lo sanno e lo hanno capito tutti caro fratel Enzo e lei stesso è la prova vivente e provata delle nefaste conseguenze di quando, nella Chiesa, il diritto e le procedure vengono calpestate e pretermesse. Ci sarebbe stato uguale ritegno a pronunciarne il nome se tali accadimenti fossero avvenuti durante il pontificato di Benedetto XVI?
Ma se a Bose hanno di che esultare, non altrettanto può gioire la Prelatura dell’Opus Dei che papa Francesco, con un suo “Motu proprio” del 14 luglio, ha tolto dalla competenza del Dicastero dei vescovi e l’ha posta sotto l’egida del Dicastero per il clero. Inoltre, ha disposto che il Prelato non sarà più vescovo e i laici dipenderanno anche in spiritualibus dal vescovo territoriale. Infine, il colpo finale. Le Prelature personali – volute dal Concilio – saranno assimilate alle «associazioni pubbliche clericali di diritto pontificio con facoltà di incardinare chierici». Tutto l’edificio creato in più di mezzo secolo dal fondatore San José Maria Escrivà e dal beato Alvaro del Portillo e che san Giovanni Paolo II aveva eretto con una Costituzione apostolica del 1982, risulta compromesso, se non vanificato. A scrivere le norme è stato il gesuita Gianfranco Ghirlanda, canonista, da sempre ostile all’Opera e per questo diventato cardinale.
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In occasione della uscita del suo libro Il pane, il vino, la bellezza, monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo e presidente della commissione Cei per l’ecumenismo, ha recentemente rilasciato un’intervista ad Avvenire che rappresenta una piccola ma significativa “summa” non soltanto della prassi pastorale moderna, ma della trasposizione in essa dei principi della teologia di Karl Rahner, quella che nei seminari ha sostituito la metafisica tomista, in particolare nello Studio di Fossano, dove ormai non si conoscono nemmeno più le sue categorie elementari e viene relegata nello studio dei saperi del passato ma che, ancora recentemente, papa Francesco – ricevendo i partecipanti al Congresso tomistico internazionale – ha esaltato.
Sotto questo profilo le risposte del vescovo sembrano originali ma non lo sono in quanto vi compaiono tutti i tòpoi della retorica del cambiamento affidato alla prassi. «L’inizio è una domanda: hai voglia di fare un pezzo di strada con me?». Infatti, uno degli assiomi del nuovo paradigma teologico è che Dio si manifesta con una domanda e non come una risposta. «Non serve un bagaglio particolare, si parte dal più normale, per certi versi banale, dei gesti quotidiani: mangiare». Curare quindi le relazioni umane, la convivialità, la dimensione della tavola, la capacità di condividere, la dinamica della festa, «perché la festa serve per accorgerci che questa vita ha un senso, ha un gusto, merita». Così l’arte e il bello non riflettono il Vero ma rinviano ad un indistinto «mistero», che nessuna fede positiva può esprimere. Nelle case dovrebbe esserci «qualche simbolo, per esempio un oggetto come una candela che richiami al cammino comune». Forse un crocifisso sarebbe troppo perché quello che conta è «camminare insieme» e qui veramente è forte l’immagine rahneriana di colui che è come se vedesse passare davanti un flusso di persone e lui, senza sapere dove esse vadano e senza avere niente da proporre loro, si inserisse nel flusso e cominciasse a intessere relazioni con chi gli è vicino nella speranza, in questo modo, di capire meglio cosa fare. Perché la Chiesa deve convertirsi al mondo e «sciogliersi» in esso. Essa, secondo la visione ranheriana e – si parva componere magnis – del vescovo Derio, non deve evangelizzare, la dottrina è un abuso e una astrattezza e l’unica cosa da fare è «condividere» con gli altri, «convenire», indipendentemente dai contenuti, dialogare senza saperne il motivo, magari con il Vangelo in mano ma senza criteri di verità naturale perché non esistono verità astoriche ed eterne e nessuno sa mai con certezza se è o non è in peccato, in quanto tutto è interpretazione.
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La parrocchia della cattedrale metropolitana di S. Giovanni Battista di Torino è in attesa del suo nuovo pastore, il buon don Silvio Cora che, lasciata la quiete dell’archivio, farà il suo ingresso in duomo a settembre. Nel frattempo, sembra che una ingombrante presenza femminile, non solo abbia preso possesso della canonica, ma disponga addirittura in ordine al museo diocesano e alla chiesa di S. Francesco d’Assisi – tanto cara ai salesiani perché don Bosco vi celebrò la sua prima Messa – favorendovi, a quanto pare, il culto riformato. L’interregno della “parrochessa” non sta però passando inosservato. Si starà sperimentando qualche nuovo ministero o il venerando capitolo metropolitano si è dotato di una “canonichessa”?
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Siamo giunti all’ultima puntata – riservandoci comunque sempre qualche escursione nel campo di Agramante – del percorso che ha portato il gruppo “boariniano”, prima a costituirsi e poi a prendere possesso della diocesi di Torino. Se le premesse erano quelle che abbiamo esposto – una filosofia a-metafisica, una teologia umile aut debole e una morale disorientata ad «esperienze aperte», come hanno fatto i “boariniani” a prendere infine tutto il potere in diocesi? Si possono individuare alcuni dati oggettivi – che abbiamo già citato – e alcuni elementi culturali ed ecclesiali generali. Un dato oggettivo è rappresentato dall’assenza di una vera intelligencija alternativa. La mancanza di lungimiranza in chi aveva sensibilità differenti e il prestigio (Ghiberti e Savarino) ha determinato scelte a senso unico per l’avvio agli studi romani, ipotecando il rinnovamento della Facoltà teologica e della classe dirigente della diocesi. Il cardinale Severino Poletto riuscì a tenere a bada la smania di potere dei boariniani che comunque – ancora giovani e freschi di studi romani – non erano pronti ad assumere responsabilità di governo, anche se ne subì sempre la superbia accademica. Privo di reale preparazione teologica, ma fedele al Catechismo della Chiesa cattolica e alla dottrina classica, Poletto si mantenne sempre un prete della tradizione, senza originalità particolari e con una abilità di governo notevole. Ma era solo questione di tempo. Negli anni del suo episcopato il “cerchio magico” si consolidò, si unì, diventando una vera diocesi nella diocesi per approdare poi nei suoi capi a S. Lorenzo che diventa la sede operativa e il centro propulsore sotto l’egida di don Giovanni Ferretti, per alcuni di loro un modello di pensiero e di vita e su cui torneremo. La spenta umanità di monsignor Cesare Nosiglia, inviato a Torino dal cardinale Camillo Ruini, stancò il clero con il suo grigiore per cui, a suo paragone, Roberto Repole sembra oggi un “re Mida dell’umano”, perché almeno guarda in faccia le persone con le quali parla e pronuncia frasi di senso compiuto.
A queste condizioni oggettive, si aggiungono le circostanze culturali locali, il contesto. Torino, ed in generale il Piemonte, non si distingue certo per un cattolicesimo “identitario”. È dal tempo di Don Bosco che nessuno lotta più seriamente contro quei poteri forti che hanno influenzato pesantemente la cultura cittadina e che hanno consolidato le stagioni della loro egemonia. Con l’episcopato del cardinale Michele Pellegrino – o almeno sicuramente una sua malintesa interpretazione – gran parte del clero subì le sirene e il fascino del cattocomunismo, appiattendosi su di un “sociale” che nulla aveva a che vedere con i grandi santi sociali torinesi. Sotto questo profilo, i boariniani non hanno nulla a che spartire con i mitici preti operai: amano le comodità, i “giorni liberi” (anche dalla Messa), i viaggi e ogni genere di comfort. La regola è un po’ questa: a noi l’intellighenzia facoltosa e spiritualista – naturalmente di sinistra – ai consunti ex preti operai il popolo incolto e “poco gratificante”.
Anche tra di loro vi è una ferrea gerarchia che non viene mai infranta. Al vertice quelli che hanno studiato e hanno avuto incarichi romani. Poi – molto influenti nel governo – i due “grandi pastori” che da Grugliasco e Orbassano – inamovibili – tirano le fila e poi tutti gli altri, gli obbedienti. Se la loro sintonia con la cultura dominante non è da cercarsi nella datata ideologia progressista, molto più efficacemente la si potrà individuare nel pensiero debole, pluralista, non-dogmatico e relativista il quale – nel migliore dei casi – parla genericamente di Dio, vede Gesù come un «grande esempio», la Chiesa come un «ospedale da campo» dove – gli altri – devono curare tutti ed i Sacramenti sono riti cangianti a seconda dei gusti. E fu così che per un «librettino» (Benedetto XVI) che non passerà alla storia, i boariniani presero tutto il potere che adesso stanno imparando a gestire. (fine)