SACRO & PROFANO

La Chiesa riparte dai giovani, sold out la catechesi di Repole

Tanti under 30 delle diocesi di Torino e Susa ad ascoltare il vescovo. Bene l'episodio evangelico ma Gesù non è solo un "fattore per migliorare la vita". Il Cristo Re riveduto e (politicamente) corretto. I preti operai del card. Zuppi

Grande successo di numeri in cattedrale a Torino per la prima catechesi dell’arcivescovo Roberto Repole ai giovani. Titolo trionfalistico della Voce e il Tempo: “Oltre mille giovani in ascolto del Vescovo”. Bene, ma non benissimo, dal momento che su una diocesi di 2 milioni di abitanti – più gli 82mila di Susa – non sono proprio numeri da capogiro, siamo allo 0,04 % ed il Tg regionale, sempre indulgente con la Curia qualsiasi cosa faccia e dica, riduce le presenze a «centinaia». Un problema, però, che va ben al di là di Torino e della Chiesa stessa. Molto bene comunque la presentazione dell’episodio evangelico del giovane ricco, ma non benissimo la riduzione di Gesù a un «fattore per migliorare la vita», che «spinge ad accorgersi dell’altro come orizzonte del sé». Si sente in ciò l’eco del testo di Michel de Certeau, Mai senza l’altro. Viaggio nell’indifferenza (ed. Qiqajon).

«Con Lui – ha concluso l’arcivescovo – cessiamo di sentirci un pezzo di un grande ingranaggio o peggio ancora un problema, e ci sentiamo apprezzati per quello che pensiamo e possiamo offrire. E, soprattutto, perché con Lui ci sentiamo tanto desiderati e amati». Quindi nessuna salvezza dal peccato, nessuna verità a cui aderire, ma un semplice teismo immanente e terapeutico, che ci fa «stare meglio», solo e sempre in questo mondo.

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Leggere i commenti alla liturgia sul settimanale diocesano è sempre istruttivo. Fratel Giorgio Allegri ci prepara alla Solennità di Cristo Re, una festa che deve evidentemente dare molto fastidio, perché omette completamente le ragioni per cui Pio XI, dopo le persecuzioni anticattoliche in Messico la istituì nel 1925, e cioè la proclamazione del regno sociale di Gesù Cristo. Accontentiamoci dunque di vederlo sovrano nell’Aldilà e, su questa terra, collaboriamo a motivare eticamente e con un po’ di carità ciò che passa il convento del politicamente sostenibile nel melting pot del globalismo. Il regno sociale di Nostro Signore è perciò superato, inoltre è troppo impegnativo e va quindi rinviato nell’Aldilà. Non citeremo mai abbastanza la parabola percorsa e teorizzata dal cattolicesimo contemporaneo e ben sintetizzata dal padre Louis Bouyer (1913-2004), teologo e consultore al Vaticano II e che Paolo VI voleva fare cardinale: «Il cattolico degli Anni Trenta e Quaranta si proponeva la conquista. Dopo la guerra ripiegato sulla testimonianza. Con i preti operai ha tentato la presenza. Dopo il Vaticano II ha scoperto il dialogo. Poi ha cominciato a dire che voleva limitarsi ad accompagnare. E adesso teorizza la necessità dell’assenza. Così il cerchio si è chiuso, finendo nel nulla».

Forse quella di padre Bouyer è la migliore risposta all’ex parlamentare Giorgio Merlo che, sullo stesso giornale, non manca mai di intervenire per auspicare – con buone ragioni – una rinnovata presenza della sinistra sociale di ispirazione cristiana, osservando con creanza che siano un po’ in troppi – magari senza titolo – a voler occupare uno spazio che sembra si sia però elettoralmente ridotto a numeri da prefisso telefonico. Parafrasando il Manzoni, si può dire che non saranno certo i cattolici di sinistra – ma anche in effetti quelli di destra – a spiantare Milano… Da par suo, la liturgista suor Sylvie André, trattando della memoria dei defunti nella Messa, offre per loro una sua professione di fede, dove la parola Purgatorio viene  espunta, risultando così che i defunti i quali non siano in Paradiso, «sono ancora in cammino, oltre la morte e in un modo che rimane per noi misterioso». La parola suffragio nell’articolo non vi compare mai. Don Lucio Casto è così servito…

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A proposito di preti operai, il simpatico cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha celebrato l’esperienza dei preti operai – di cui Torino fu una roccaforte – e che avrebbero, secondo lui, anticipato la «Chiesa in uscita». Come è stato osservato, se il tema era l’evangelizzazione, i preti operai non avevano questo scopo, ma volevano dare una testimonianza, vivere all’interno di quel mondo, condividerne le istanze, lottare con gli operai per la giustizia sociale. Non si andava in fabbrica per predicare il Vangelo, non era una pastorale di contesto e, a ben vedere, non era nemmeno una pastorale, ma una militanza. La Chiesa, si diceva, doveva imparare dal mondo e la fede andava secolarizzata. Non di convertire si trattava, ma di convertirsi. I risultati si sono visti. Più che una Chiesa in uscita, una uscita dalla Chiesa.

Ben più interessante è stato l’intervento all’Assemblea della Cei – tenutasi ad Assisi nei giorni scorsi – di monsignor Stefano Manetti, vescovo di Fiesole e presidente della commissione episcopale per il clero che, riassumendo il contenuto della Ratio Fundamentalis Institutionis sacerdotalis, ha delineato così il profilo del prete del futuro: «Un uomo di relazione, che viva la prossimità con tutti coloro che il Signore gli affida, che sappia camminare con il popolo di Dio, non venendo meno alle sue responsabilità di essere guida, punto di riferimento, presidente dell’Eucarestia e dell’annuncio, ma capace di rifuggire ogni forma di clericalismo». Lasciando stare i termini – ormai impronunciabili – di sacerdote, alter Christus o intermediario tra Dio e gli uomini, uomo del sacro ecc., il profilo mette al primo posto non la relazione con Dio, ma quella con gli uomini, dove la presidenza – non, si noti, la celebrazione dell’Eucarestia – appare quasi per incidens, mentre l’offerta del Sacrificio di Cristo e l’amministrazione dei Sacramenti dovrebbe costituire per ogni prete l’essenza e la fonte. Un animatore insomma o poco più…

Credits: foto apertura di Mihal Bursuc dal sito della Diocesi

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