SACRO & PROFANO

Vescovi a rapporto dal papa

La data non è ancora stata fissata ma il 2024 sarà l’anno della visita ad limina apostolorum in Vaticano dei presuli piemontesi. Il congedo di Brambilla e Cerrato. Le aspettative romane di Miragoli e Testore. Il centenario di Saldarini passerà sotto tono?

Non si conosce ancora la data precisa ma è sicuro che per i vescovi piemontesi il 2024 sarà l’anno della visita ad limina apostolorum e cioè l’incontro che, ogni cinque anni, i pastori di una circoscrizione ecclesiastica hanno in Vaticano con il papa e i capi dicastero per illustrare i problemi delle diocesi loro affidate. Serpeggia un sentimento di inquietudine perché con Francesco tale obbligo non ha mai nulla di scontato. Vedersi scrutati – non tanto nell’esortazione pubblica quanto nei colloqui privati – dal suo sguardo finto-bonario e indagatore è una esperienza che ha ben poco di piacevole e rimarca quanto siano ormai lontani i tempi della bonomia di San Giovanni Paolo II o della mite dolcezza di Benedetto XVI, quando la conversazione con il pontefice verteva sui loro ricordi piemontesi e gli aneddoti si sprecavano. Adesso – andata perduta l’aura sacrale che avvolgeva la persona del papa – sembra di essere convocati dal capoufficio e tutti sono più che guardinghi a cogliere nel suo umore qualche personale riferimento. Per il Piemonte, due fra i molteplici e gravi problemi, come la desertificazione delle chiese e la sparizione delle vocazioni, saranno i temi: il numero e la qualità delle strutture formative – vedasi seminario regionale – e l’unione delle piccole diocesi che procede con biblica lentezza.

A parte Franco Giulio Brambilla e Edoardo Cerrato per i quali la visita sarà un saluto di congedo, per Roberto Repole, Alessandro Giraudo, Marco Brunetti e Marco Prastaro (quest’ultimo il piemontese più bergogliano), essa non costituirà un problema ma semmai un incoraggiamento. Le eventuali battute saranno riservate agli altri: il grigio e stantio Marco Arnolfo di Vercelli, il tronfio Gianni Sacchi di Casale Monferrato, il mellifluo Franco Lovignana di Aosta, il capo-cantiere Piero Delbosco di Cuneo, il naïve Roberto Farinella di Biella, l’improbabile Cristiano Bodo di Saluzzo, l’immaginifico Guido Gallese di Alessandria con, in ultimo, l’ex astro emergente Derio Olivero di Pinerolo, diventato una sorta di Vittorio Sgarbi dei poveri. Un discorso a parte meritano i lombardi Egidio Miragoli e Luigi Testore, sempre in attesa di un incarico romano e per le cui ambizioni Mondovì ed Acqui sono diventate un vestito più stretto che mai. Se poi ai vescovi residenziali si unisse anche il gruppone degli emeriti tutta la brigata supererebbe il numero complessivo dei seminaristi piemontesi.

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Ad oggi non si conosce ancora nessuna presa di posizione – individuale o collettiva – dei nostri presuli su Fiducia Supplicans, la Dichiarazione che apre alle benedizioni delle coppie gay.  L’unico – per ora – che si è slanciato in un entusiastico peana è stato il teologo del Cuneese don Duilio Albarello che in un post ha definito il documento «ottimo» poiché in esso si farebbe valere il primato del «principio di misericordia» che re-interpreta radicalmente la dottrina «alla luce del vissuto concreto». Tale messaggio è però sparito dal suo profilo Facebook. Sarà forse che il monregalese ha saputo, secondo rumors sempre più insistenti provenienti dalla corte di S. Marta che, considerate le reazioni negative di interi episcopati, sarebbe prossimo il disconoscimento di Fiducia Supplicans da parte del papa e l’attribuzione del suo contenuto al solo povero Tucho? Non sarebbe poi la prima volta che il volubile Francesco prima conosce e approva poi – visto come si mette – disconosce.

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Sorprendente e realistica analisi del pontificato bergogliano da parte di don Filippo Di Giacomo, vaticanista del Venerdì di Repubblica: «Nel 2021, dopo nove anni di discussioni, la Costituzione Apostolica che doveva riformare la curia, la Praedicate Evangelium, redatta da incompetenti senza consultazione alcuna, è stata pubblicata e subito superata da una serie di provvedimenti urgenti (motu proprio e lettere apostoliche) che hanno tentato di porre riparo ai non sensi giuridici ridefinendo ruoli e leggi. Anche i più benevoli ritengono che vada riscritta ex novo. Francesco ha imposto la supremazia dello Stato della Città del Vaticano sulla Santa Sede, emarginato la Segreteria di Stato, reso inerme la diplomazia pontificia, eliminato i corpi intermedi, imposto la supremazia dei giudici su qualunque organo di governo ecclesiale “dimenticando” diverse pagine del Concilio, comprese quelle sul ministero e il collegio episcopale. Dopo Bergoglio, “ci vorrebbe un giurista”, preconizza qualche porporato elettore. Più che un pio desiderio, una minaccia».

Ma chi sarebbero questi «incompetenti» che hanno redatto così malamente un documento tanto importante? Uno è senza dubbio il neo-cardinale Gianfranco Ghirlanda – detto “il killer” – ma l’altro è un piemontese, poco conosciuto che però ha ricoperto e ricopre un posto chiave in Vaticano ed è uno dei non molti che alla corte di S. Marta vede più spesso il papa. Si tratta dell’albese monsignor Marco Mellino, classe 1966, ordinato nel 1991, canonista, consacrato vescovo nel 2018 dal segretario di Stato Pietro Parolin e dal 2020 segretario e coordinatore del Consiglio dei cardinali (C9) e della commissione per la revisione del regolamento generale della Curia romana. Per rimanere così tanto ad un posto così importante la sua obbedienza deve essere veramente «pronta, cieca e assoluta».

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Nel 2024 si compiranno cento anni dalla nascita del cardinale Giovanni Saldarini (1924-2011) che fu arcivescovo di Torino dal 1989 al 1999. L’anniversario passerà – ne siamo certi – sotto silenzio, al massimo lo si ricorderà con una Messa. Mentre per Michele Pellegrino (che veniva celebrato ancora prima della sua morte) si continua tutt’ora alla sua mitizzazione un mese sì e un mese no e per Anastasio Ballestrero è in corso il processo di beatificazione al quale è stato messo l’acceleratore (Severino Poletto aveva già provveduto egli stesso), per il prelato brianzolo tutto tace. I giornalisti cattolici, i preti da lui ordinati (fra questi l’arcivescovo Repole e l’ausiliare Giraudo) e il suo solerte ex segretario pare non assumeranno iniziative e questo nella diocesi dove un convegno di studi – se si è di una certa parte – non si nega mai a nessuno, anche ai viventi, fa un po’ fa specie. D’altro canto, basta guardare la sua sepoltura in duomo, dove pure il cardinale volle essere seppellito: una iscrizione malferma posta in terra, che non riserveremmo ai nostri parenti, di cui ci si dovrebbe vergognare e sulla quale è persino scomparsa la fotografia. Insomma, se non è una damnatio memoriae, quasi ci siamo. Forse al cardinale Saldarini – che fu oggetto per tutto il suo episcopato di una guerra preventiva e sorda da parte di tutte le correnti progressiste riunite, ma sotto il cui episcopato fu celebrato l’ultimo Sinodo – non si è mai perdonato quel suo primo richiamo ad una diocesi troppo impegnata a trovare la salvezza in questo mondo: «Chiamati a guardare in alto» (Osea 11).

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A proposito di guardare in alto, 31 dicembre 2022, umile e mite come era sempre vissuto, se ne andava Benedetto XVI, mal sopportato dai progressisti e in primis dal papa regnante da cui fu liquidato con quei funerali che, per la sciatteria e la sbrigatività con cui furono celebrati, scossero anche gli avversari del papa tedesco. La sua inimitabile e irraggiungibile altezza di pensiero manca come non mai a una Chiesa avviata di gran carriera a diventare una Ong di basso profilo, incapace di dialogare con la modernità ma solo di esserne serva. A Torino i suoi detrattori – sia in versione pellegriniana o boariniana – sono oggi al comando ma la sensazione di molti è che, a dispetto dei loro vantati ed esibiti titoli accademici, più che le casematte del potere abbiano conquistato il magazzino delle scope, perché le anime sono tutt’altra cosa. Di Benedetto meglio non si potrebbe che dire come ha fatto Marcello Veneziani: «Ratzinger fu un rigoroso difensore della fede e della dottrina contro la dittatura del relativismo e l’incedere dell’islamismo; ma c’era in lui il tormentato filosofo che si confronta con l’ateismo e riapre i conti con Nietzsche, Heidegger e il pensiero contemporaneo. Egli non si limitò a condannare l’ateismo, a criticare il fanatismo islamico, a deplorare il cinismo nichilista dell’epoca; provò a dialogare, a confrontarsi, a riconoscere la fecondità dell’inquietudine negli atei, restando realista e consapevole dell’impossibilità di tornare indietro; fu anche un intellettuale, dunque meno incline a trovare soluzioni pratiche, meno propenso all’azione risolutiva. Il suo magistero si svolse attraverso l’elaborazione dottrinale e il confronto con gli atei. Fides et ratio».

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