LA SACRA FAMIGLIA

Agnelli-Elkann ormai senza radici, Salza e il feeling con Marchionne

Nelle sue memorie l'ex banchiere ripercorre i rapporti con la Famiglia e la Fiat, a partire dal famoso prestito che salvò l'azienda. Il manager col maglioncino "ispirava fiducia", mentre di Montezemolo non ha mai condiviso "l'approccio al lavoro". Lavoro?

Non è mai stato uno di Famiglia. Tra gli uomini di potere è stato uno dei pochi a ritagliarsi uno spazio di grande autonomia dagli Agnelli, anche quando a Torino i voleri di corso Marconi, all’epoca quartier generale della Fiat, erano legge. Ora alla veneranda di 86 anni, Enrico Salza ripercorre i tratti di un rapporto “dialogico”, in certi momenti anche conflittuale, con quella che per un secolo è stata l’autentica casa reale.  Il tema attraversa le pagine del libro di memorie appena pubblicato – Sapremo fare la nostra parte – a partire dalle relazioni tra il principale gruppo industriale e il Sanpaolo, di cui fu presidente e tra gli artefici dell’operazione di “fusione” con Intesa. “Fiat e Sanpaolo hanno intrecciato i rapporti in diversi momenti della loro esistenza, ma era naturale perché erano la maggiore azienda e la maggiore banca dello stesso territorio. Ma l’una non ha mai seguito i destini dell’altra”, racconta, scorrendo le tappe di una storia culminata nel famoso “prestito convertendo” che consentì il salvataggio dell’azienda.

Classe 1937, geometra laureato honoris causa in ingegneria gestionale, cavaliere di lavoro, Salza – spiega Giuseppe Russo, curatore della pubblicazione – è stato un testimone privilegiato di 50 anni di storia italiana, Imprenditore, banchiere, per 18 anni alla guida del Sole 24 Ore, senza disdegnare l’impegno politico, seppur dietro le quinte, con l’esperienza di Alleanza per Torino e l’ascesa a Palazzo civico di Valentino Castellani. In un certo senso è stato il sensale che ha favorito l’incontro tra il mondo dell’impresa e la sinistra in pieno travaglio post-comunista, dando concretezza a quel “patto tra produttori” lanciato dall’allora segretario del Pci subalpino Piero Fassino.

Nel libro Salza parla degli anni difficili della Fiat dopo la morte di Giovanni Agnelli e poi di Umberto. «Ho sempre detto, e ribadisco, che “non esiste un diritto al credito” neppure se si è la maggiore azienda italiana. Questo aveva salvato il Sanpaolo dal finanziare la maggior parte delle crisi delle grandi imprese negli anni precedenti. Anche con Fiat mantenemmo un atteggiamento realistico» spiega il banchiere. È vero c’è stata la sottoscrizione del convertendo, ma Intesa ne prese «una fetta sostenibile. Avevamo meno esposizione noi (400 milioni) di banche che con il territorio c’entravano poco o nulla, come Intesa o Capitalia», sottolinea Salza che definisce quell’operazione «una parentesi, necessaria per senso di responsabilità, ma una parentesi».

Salza ricorda l’arrivo di Sergio Marchionne, il manager in maglioncino così distante dallo stile paludato dell’establishment sabaudo. «Ci fu feeling immediato, venne spontaneamente a raccontarmi le vicende della Fiat nel mio ufficio, direi mensilmente. Questo è il rapporto, che suggerisco a ogni imprenditore, da tenere con la banca. Tenere il banchiere informato». Salza dice che «Marchionne ispirava fiducia. Credevo a tutto quello che diceva. Non così nei confronti di tutto il Gruppo Fiat». Il riferimento è a Luca Montezemolo di cui non ha mai condiviso «l’approccio al lavoro». Non ha grande considerazione per Libera & Bella, come l’ex presidente di Confindustria veniva sbeffeggiato sotto la Mole. «Non abbiamo avuto le stesse vedute. Si vede che siamo diversi». Il giudizio è positivo su Franzo Grande Stevens, uno dei “grandi vecchi” della corte agnellesca, di cui elogia «lealtà e professionalità». Il rapporto con la famiglia Agnelli-Elkann? «Quando aprimmo al convertendo, che rese possibile il salvataggio della loro azienda, pretesi che attraverso l’accomandita partecipassero all’aumento di capitale che li ha salvati. E per una famiglia alla quinta generazione non è stata una scelta facile da digerire. Anzi credo sia stato un rospo. Adesso dovrebbero ringraziarmi. Ma c'è sempre stata una differenza tra me e loro, soprattutto dei tanti di cui sappiamo solo l’esistenza, ma che non conosciamo. Io facevo lo stesso loro mestiere, di imprenditore, in una città che amo. Loro hanno perso le radici».

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