SANITÀ

Se paghi niente attesa, sempre più esami e visite private negli ospedali

Da Nord a Sud cresce l'intramoenia nelle strutture pubbliche. Basta mettere mano al portafogli e, dallo stesso medico ospedaliero, si saltano le liste. In Piemonte meno di dieci giorni per una visita cardiologica - RAPPORTO AGENAS

Una visita cardiologica? Da due a massimo nove giorni d’attesa. Problemi agli occhi? Per farsi visitare dall’oculista al massimo si aspettano due settimane, ma solitamente i tempi sono assai più brevi. Questi sono i dati del Piemonte, ma che non si discostano poi molto da quelli della Sicilia, della Liguria e perfino della Campania

Da Nord a Sud la differenza è minima, ovunque i tempi d’attesa sono brevi, sideralmente lontani da quelli che senza troppi risultati si cerca da anni di abbreviare. Ma dove si riesce a ottenere una visita specialistica, ma pure esami diagnostici, così in fretta rispetto ai tempi biblici che i pazienti sono costretti a sopportare? Nel privato, la facile risposta di chi pavlovianamente indica le cliniche come la strada obbligata per chi non vuole o non può attendere. Sbagliato. Questi dati riguardano gli ospedali pubblici che, in virtù di una assai discutibile legge, diventano come per incanto strutture private, o più esattamente luoghi dove i medici dipendenti che decidono di farlo, visitano al di fuori dell’orario di lavoro, lasciando all’azienda sanitaria, ospedaliera o universitaria che sia, una parte del loro compenso. 

Introdotta nel 1992 dal governo di Giuliano Amato, la possibilità di esercitare la professione in regime di intramoenia, per compensare le basse retribuzioni e, fin da allora, per ridurre le liste d’attesa, col passare del tempo si è trasformato in un mostro incontrollato che, oggi più che mai, le liste d’attesa contribuisce semmai ad allungarle, vanificando quell’illusoria speranza iniziale, perpetrata da altri governi. Convinto che questa fosse la strada per ridurre le attese pure Renato Balduzzi, il costituzionalista chiamato da Mario Monti al ministero della Sanità, impose un un aumento del 5% sul compenso dei medici a accantonare, guarda un po’, sempre per ridurre le liste. Anni dopo ne sortì un contenzioso tra le aziende sanitarie che chiedevano gli arretrati ai camici bianchi e questi che lo negavano con, alla fine la Corte di Cassazione che darà ragione ai medici, motivando che quell’aumento non avrebbero dovuto versarlo loro, ma richiederlo ai pazienti. Un capolavoro. 

Ma non è finita qui. Il bello, si fa per dire, arriva proprio dal recente rapporto di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, sull’acronimo Alpi che sta per attività libero professionale intramoenia. È da quelle tabelle, riferite al 2022, che saltano fuori attese brevi, se non brevissime per una interminabile serie di visite specialistiche ed esami diagnostici. Il medico è lo stesso, l’ospedale pure. A fare la differenza, per i cittadini, sono i soldi, in questa sorta di privato che, legittimamente, opera nelle strutture pubbliche, anche se in molti casi la assai discutibile norma consente di “spostare” le mura dell’intramoenia in quelle degli studi privati dei medici. Una differenza che non solo tocca le tasche dei pazienti, ma che vede un sistema sempre più senza controllo, ottenendo l’esatto opposto dell’obiettivo per cui più di trent’anni fa si erano aperte le porte degli ospedali all’attività libero professionale dei medici dipendenti che decidessero di farlo.

Leggi qui il Rapporto Agenas

A confermarlo sono, ancora, i dati raccolti ed elaborati da Agenas, secondo in quali nel Paese la percentuale delle prestazioni effettuate in intramoenia supera spesso in maniera notevole, il tetto fissato. Un rapporto abnorme tra il numero di prestazioni fornite dagli stessi medici in regime cosiddetto istituzionale, ovvero pagato dal servizio sanitario nazionale, e quello a pagamento in intramoenia, con le prime che fanno le spese delle seconde. C’è, per esempio, il caso di un’azienda sanitaria del Piemonte dove per interventi al cristallino la percentuale dell’intramoenia arriva al record del 371%, quindi più del doppio rispetto al tetto massimo. Non ci vuol molto a comprendere che più alto è il numero delle visite e degli interventi a pagamenti, meno sono quelle erogate dallo stesso specialista ma fornite dal servizio sanitario e, di conseguenza, la riduzione delle liste d’attesa resta poco più di una pia illusione. 

Non solo. Una parte dell’intramoenia viene svolta al di fuori delle strutture pubbliche, ovvero in ambulatori privati dove tuttavia il medico opera come se fosse in ospedale. Una possibilità che trovava la sua giustificazione nei casi in cui le strutture pubbliche non avessero locali disponibili, ma che negli anni si è allargata anche di fronte a ospedali con abbondanza di spazi inutilizzati. E l’agire al di fuori dei locali dell’azienda non può che favorire un minore controllo sull’effettivo numero di prestazioni erogate. Emblematico il caso di Città della Salute di Torino dove l’inchiesta della magistratura e il documento del collegio sindacale hanno acceso un faro sul mancato introito da parte dell’azienda delle percentuali dovute dai medici per le prestazioni in intramoenia. Un sistema nato anche per ridurre le liste d’attesa che, al contrario, si sta rivelando sempre più una delle cause di questo problema. Che i pazienti, spesso, sono costretti a superare proprio entrando in ospedale, ma pagando come fossero in clinica.

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