FINANZA & POTERI

Crt, la "breccia" di Poggi al Mef: commissario o prescrizioni

Missione romana della presidente per evitare il colpo di mano (e salvare la sua poltrona). La giurista ciellina ritiene che con la sua azione siano venuti meno i presupposti per un provvedimento drastico. Giochi di potere e pressing politico su via XX Settembre

Bocche cucite al 97 della romana via XX Settembre, nel palazzo voluto da Quintino Sella e da cui il gran biellese teneva ben stretti i cordoni della borsa dell’ancora gracile Regno d’Italia, e dove martedì è attesa Anna Maria Poggi, dallo scorso 7 giugno presidente della Crt. Non foss’altro che per una curiosa coincidenza toponomastica – anche la fondazione ha sede in un palazzo, Perrone di San Martino, affacciato sulla via torinese che ricorda la presa di Roma – lo spirito “garibaldino” con il quale la giurista di fede ciellina tenterà di fare “breccia” nei vertici del Mef sarà quello di chi è convinto di avere finora ben operato per rimettere in carreggiata un ente che tra sbandate e manovre azzardate è a un passo dal precipizio. Anzi, Poggi è certa che aver dato pieno ritmo all’attività e avviato un’operazione interna di audit abbiano fatto venir meno i presupposti di un intervento da parte dell’autorità di vigilanza. Almeno nel suo aspetto più drastico: il commissariamento. È la stessa professoressa ciellina ad aver confessato, in camera caritatis, di nutrire buone speranze sull’esito positivo dell’incontro, da cui potrebbe derivare al massimo – sempre secondo i suoi auspici – una serie di prescrizioni e di indicazioni cui ottemperare sotto l’occhio vigile del ministero.

In questo contesto va letta la mossa delle dimissioni da alcuni incarichi che i quattro “congiurati” si erano attribuiti al termine di un cda iniziato il 19 aprile con la sfiducia al segretario generale Andrea Varese e concluso il 22 aprile con lo scontro con Fabrizio Palenzona e le sue successive dimissioni. Sarà sufficiente questo beau geste, peraltro non ancora completamente compiuto, avvenuto tra qualche malumore e con la presidente Poggi contraria a prendere misure più drastiche (ad esempio, la sospensione del consigliere indagato Antonello Monti), per scongiurare l’arrivo di un commissario? Chissà. Di certo, con la relazione degli ispettori in mano, il direttore generale del Tesoro, Marcello Sala, e il responsabile dell’ufficio ministeriale che sovrintende le attività di vigilanza Vincenzo Meola busseranno alla porta del titolare, Giancarlo Giorgetti. Perché alla fine qualsiasi decisione, in un senso o nell’altro, avrà una forte valenza politica. Il ministro leghista, come noto, non è un cuor di leone, ed è verosimile che in queste settimane abbia sondato il terreno, cercando una via di uscita che possa salomonicamente essere accettata da tutti. Da una parte, si sa, il vecchio ma ancora potente Giuseppe Guzzetti, vede come fumo negli occhi ogni intromissione che mini l’autonomia delle sue creature e, inoltre, non amando Palenzona (per usare un eufemismo) pare stia facendo il diavolo a quattro per impedire il commissariamento. Dall’altra, ampi settori del governo (leghisti ma soprattutto Fratelli d’Italia di rito crosettiano), all’uopo instradati dal Camionista di Tortona, potrebbero cogliere l’occasione per violare uno dei sancta sanctorum della finanza sabauda e dare una lezione a qualche parruccone.

Giorgetti, raccontano fonti autorevoli, è indeciso. Soprattutto è spaventato dal dover prendere una decisione oggi con il rischio che le indagini della magistratura – oltre a Torino c’è pure Roma ad aver iniziato a scandagliare – scoperchino una situazione ben più grave di quella che una semplice verifica amministrativa potrebbe produrre. L’accusa è pesante: con il presunto “patto occulto” si sarebbe esercitata un’interferenza illecita in assemblea, attraverso la quale sarebbero maturate nomine sia in seno al Consiglio di indirizzo (la scelta nelle terne che ha portato all’ingresso di 9 presunti “pattisti”), sia all’interno di alcune partecipate come Equiter, Ream e Ogr (Caterina Bima, Antonello Monti, Davide Canavesio e Anna Maria Di Mascio). E chi può escludere che agli attuali indagati – un consigliere di amministrazione, 6 consiglieri di indirizzo (due hanno rassegnato le dimissioni) e un ex consigliere, Corrado Bonadeo, considerato la “mente” del patto – se ne possano aggiungere altri nel prosieguo dell’inchiesta? Per questa serie di ragioni, non è detto che la missione romana della presidente Poggi concluda la vicenda con una risoluzione. Inoltre, non è affatto detto che dopo il confronto con l’alta burocrazia veda il ministro.

In queste ore, sui tavoli che contano del Tesoro c’è un articolo di un magistrato della Corte di conti, Massimiliano Atelli, apparso di recente sulla Gazzetta Forense, in cui si affrontano questioni che sembrano precisamente ritagliate sul “caso Crt”. Molte delle argomentazioni discusse dal giurista sono evidenziate in giallo, una in particolare: “Non soltanto ai componenti dell’organo di indirizzo è vietato di svolgere la loro attività a vantaggio diretto di coloro che li hanno nominati, ma perfino, in aggiunta, e distintamente, a vantaggio diretto personale, cioè degli stessi componenti. Solo a questa condizione, infatti, può essere garantita l’imparzialità e la correttezza dell’azione delle fondazioni stesse”. Nella dotta disquisizione sul rapporto tra interessi e rappresentanza, il nodo è proprio la natura giuridica del mandato. Sarà pure materia da legulei, ma il fatto che Atelli sia uno dei nomi che circola negli ambienti romani tra i papabili commissari di Crt, induce un supplemento di cautela.

print_icon