SACRO & PROFANO

Cambio di stagione nella Chiesa, Repole prepara il lungo inverno

All'assemblea del clero l'arcivescovo di Torino ridisegna la presenza in diocesi e sollecita a fare i conti con il "cambio di paradigma epocale". Ormai alle spalle la (supposta) primavera pellegriniana. L'inclusività e l'amichettismo in Curia

L’assemblea del clero diocesano di Torino e Susa di lunedì scorso presso il Santo Volto ha dato l’impressione di essere volta, negli interventi dei vertici ecclesiali, a tranquillizzare l’uditorio, in particolare su due punti e cioè che in fondo «i preti non sono poi così pochi», basta distribuirli meglio, e che il cambiamento – verso dove? – è inesorabile ma che occorre avere fede e fiducia. I due mattatori della serata don Mario Aversano e don Michele Roselli sono apparsi a tratti in alcuni momenti un po’ frastornati, forse a causa delle vacanze oltreoceano. Il primo ha illustrato la presenza della Chiesa sul territorio e, facendo qualche confusione sui numeri, ha fatto la conta: 852 sacerdoti compresi i religiosi, 346 parrocchie per 2 milioni di abitanti, affermando che i dati infine «non sono oggettivi, ma un punto di partenza». Nella società secolarizzata la situazione progettuale spesso parte dalla visione di una società cristiana: «come un treno in movimento, quello che vediamo sta già cambiando, cerchiamo di catturare un’immagine, ma il paesaggio, nel frattempo, è mutato». Insomma. occorre adeguarsi al fatto che panta rei, tutto scorre e nulla è certo. Al che un prete è stato tentato di rispondere (cosa che poi non ha fatto) con il certosino Stat Crux dum volvitur orbis. Troppo difficile.

I seminaristi maggiori sono oggi 16, di cui uno di Vercelli, formati da una équipe in cui è presente da un anno la psicoterapeuta e sessuologa, Ileana Gallo, la quale non è lì «per essere la loro psicologa personale, ma collaboro (fornisco strumenti) alla formazione umana per sviluppare una personalità equilibrata, solida e aperta agli altri». La sensazione è che il seminario non sia più un percorso ma sia diventato un discorso, peraltro abbastanza confuso. Si è poi parlato dell’Oasi Frassati, un progetto di collaborazione fra seminario e giovani; i primi possono fare pastorale giovanile a contatto con i secondi e viceversa. In tutto questo la vocazione, naturalmente, è sempre intesa «in senso ampio» e quindi necessariamente e volutamente vaga. Sul progetto tanto declamato dei «percorsi per i ministeri istituiti» – ai quali hanno risposto in ben 79, tra cui molti ex Sfop (operatori pastorali), illustrandolo don Michele Roselli si è un po’ impantanato all’inizio quando stava per dire «ministeri ordinati» e non gli veniva invece il termine «ministeri istituiti». Don Aversano ha poi detto che «ci sono più Messe che comunità» facendo intendere che si andrà verso una drastica riduzione delle celebrazioni.

Il clou della serata, alla quale fonti ufficiali dicono abbiano partecipato in 400 – le foto dicono tutt’altro ma probabilmente molti hanno trovato diverse tessiture del mantello dell’invisibilità di Harry Potter – è stato, ovviamente, l’intervento dell’arcivescovo, monsignor Roberto Repole.

A tal proposito, la lettera pastorale, dal titolo Voi stessi date loro da mangiare, e il suo discorso all’Assemblea del clero sono intimamente connessi e vanno letti in parallelo, soprattutto se si desidera comprendere esattamente il pensiero e il sentiero che egli traccia per i preti e per i fedeli. Come abbiamo detto non si tratta di testi particolarmente “illuminati”. Anzi, alla fine risultano piuttosto banali e scontati e da colui che fu presidente dell’associazione teologica italiana, ci saremmo aspettati qualcosa di più e di meglio. La prima cosa nota, che tuttavia emerge chiaramente è la definitiva chiusura della lunga epoca pellegriniana. A fronte di interpretazioni del cristianesimo appiattite unilateralmente sul sociale e sulla «generica filantropia», Repole invita, con semplicità e chiarezza, a riconoscere il primato della dimensione teologica e spirituale su quella sociale, cercando di radicare la carità della Chiesa e dei cattolici «nella e dalla carità di Cristo». Inserisce la carità, tra le caratteristiche fondamentali della Chiesa, fino ad affermare: «Una comunità di credenti in Cristo che non vivesse, nel suo insieme, la carità, non sarebbe realmente Chiesa». Con coraggio, poi, invita a superare il mero filantropismo e, soprattutto, una certa meccanicità scontata nel fare la carità, spingendo tutti a fare un salto verso la «condivisione di ciò che si ha e, soprattutto, di ciò che si è», quasi riconoscendo – ma guai a usare questa espressione! – una certa «nostalgia dell’essere», nella carità che i cristiani esercitano. Infine, altro passaggio cruciale, l’arcivescovo lega la carità alla missione, invitando a non dare per scontato che offrire qualcosa di materiale sia sufficiente, ricordando che «se Cristo solleva le persone e se ne prende cura è per stringere un legame con loro», legame che diventa missione, annuncio di Cristo.

Dato atto di questo, nella Lettera si paventa un futuro nel quale i cristiani saranno pochi e con pochi mezzi, incapaci di tenere in piedi le opere di carità, mentre nell’intervento all’Assemblea si descrive una situazione di «cambio di paradigma epocale», con pochi e frustrati preti, la cui fede è debole e vacillante e la cui umanità è ripiegata su sé  stessa. Ora è fuor di dubbio che i cambiamenti, in Occidente e in Italia, in quella «primavera della Chiesa» che è stato il post-Concilio, sono stati devastanti e i numeri, sia nelle chiese sia nei seminari, dimostrano che siamo nell’inverno più profondo. Ma alcune domande sorgono spontanee. L’arcivescovo sembra porre un’alternativa tra lo «stare con Cristo» e lo «stare con la folla»; ma siamo certi che Cristo e la folla, dopo la Resurrezione e la Pentecoste, non siano la stessa cosa? La «folla» non è forse il Corpo di Cristo, servendo il quale si serve Cristo, senza alternative spiritualistiche? Ancora, afferma che la Chiesa «prolunga la carità e quindi la presenza» di Cristo nel mondo. Bello, ma perché da ecclesiologo, non arriva a dire che la Chiesa è la Presenza di Cristo nel mondo – il Christus totus – e non solo, nella sua espressione caritativa, un «prolungamento»? E poi chi misura la carità? In fondo la carità è come la fede, se ne possono vedere i segni, ma chi può realmente misurarla? Appare quindi pericoloso legare la Presenza di Cristo all’esercizio della carità, perché una «Chiesa povera per i poveri», finirebbe per ridursi all’esercizio della carità, ma sarebbe sempre la Chiesa di Cristo?

In definitiva, entrambi gi interventi, per quanto lessicalmente comprensibili e apparentemente fondati, peccano di un radicale spiritualismo, incapace di cogliere davvero la radice profonda della realtà delle cose, incapace di quella fondazione ontologica di cui la fede vive. Sono testi di uno spiritualismo buono, alla moda, gratificante e borghese, non comunista ma, potremmo dire, salottiero. Infatti, la generazione che governa oggi è tutt’altro che combattiva rispetto al sociale a cui tributa un omaggio formale. Per questo, come si è detto, l’epoca pellegriniana è veramente finita. Anche l’invito fatto al clero di maggior coesione e alleanza nel servizio, apparirebbe meno ipocrita, se la Curia non fosse formata tutta e solo da “amichetti e amichette” che non mettono in discussione il “nido caldo” che si sono creati e che si rimprovera invece agli altri. L’inclusività è una bella parola, ma com’è difficile viverla! Ci aspettavamo di più dal “vescovo teologo” ma, a sua scusante va detto, che anche la teologia oggi è povera. La «svolta antropologica» sembra – e non da oggi – aver perso la sua spinta propulsiva.

credits: foto apertura di Mihai Bursuc, sito Diocesi di Torino

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