Un pizzico di nuovo umanesimo

Caro Direttore,
un po’ per caso mi son trovato coinvolto nella realizzazione di un corto sulla vita di Vera Rubin, nella veste mia non usuale di attore, nel rivestire il ruolo scomodo di docente universitario di mezz’età intriso di misoginia che sbarra la strada all’iscrizione della futura pluripremiata astronoma statunitense. Per chi per lavoro si occupa di come creare percorsi di formazione inclusivi, questo dire no ha aperto domande e interrogativi, in una contingenza in cui è di nuovo aperta la discussione su diritti di genere e declinazioni nominali ed aggettivali.

In tutto l’Occidente, ancora dopo la Seconda guerra mondiale era normale pensare che per una donna l’educazione universitaria fosse una strada preclusa, salvo fortunate e meritorie eccezioni. Oggi Almalaurea ci racconta di un’Università che restituisce sulla base di genere una distribuzione naturale dei laureati, quindi con una lieve maggioranza di donne. La distribuzione non è però equa se si guarda all’ambito disciplinare, dove si ripete ormai da decenni una prevalenza di donne nei corsi di studio umanistici, e una minoranza significativa nel comparto Stem.

C’è ancora oggi qualcuno che come ieri vedendo una ragazza apparire alla porta di un Ateneo chiede “Chi si crede di essere. Nessuna donna può studiare qui”? No, questo sicuramente e fortunatamente no. D’altra parte, oggi si vive ancora in una società in cui è forte su un piano ideale ancora un’identificazione di specifiche professioni con specifici generi. Questo vale per professioni artigiane (e.g. il tornitore, la sarta), così come professioni “studiate” (e.g. il notaro, la insegnante).

Nell’arco di cinquant’anni si è visto una trasformazione profonda che gradualmente sta infrangendo barriere e tabu, aprendo strade considerate assolutamente impensabili (basta pensare al reclutamento femminile nei corpi armati). A fronte di ciò, vivono schemi ricorrenti che diventano stringenti abiti che obbligano “naturalmente” scelte. “Mando mia figlia a fare un professionale meccanico?”: questa domanda si legge su molti livelli: quello della professione, quello della scuola, quella del contesto classe possibile a cui espongo la ragazza, ma anche il sotteso di protezione paternalistica a cui la assoggetto.

È bene? È male? Mi permetterei semplicemente di dire: così è. Come istituzioni di formazione, su vari livelli, sappiamo che, però, dobbiamo farci carico di questa situazione, di queste incertezze, dei possibili imbarazzi per aprire strade, per creare una società aperta. Chiaramente questo vale anche per l’Università che vive, come anello terminale di una catena formativa, lo stratificarsi di questi schemi e non è semplicemente operando sui criteri di selezione e valorizzazione, attraverso forme di discriminazione positiva che può pensare di risolvere in solitudine questa situazione. Da qui, la necessità di ricostruire una prassi collaborativa che attraversi tutti i livelli di istruzione in una visione di insieme a servizio di quella società di eguali a cui si protende.

A fronte di questo ragionamento e nel leggere l’ansia che molti colleghi e commentatori esprimono nel notare gli sbilanciamenti disciplinari, mi permetto in queste righe di evidenziare un latente punto irrisolto in tutta la discussione presente, un’ansia educativa tutta incentrata a soddisfare solo ed unicamente il mondo del lavoro. Tutto il sistema educativo è permeato di una prassi e di una retorica che assoggetta la formazione all’esigenza del mercato, quindi identificando il completamento dell'individuo, il suo successo, unicamente con la sua capacità di entrare positivamente nel mercato del lavoro scalando posizioni. Seppure sia ferreamente convito che l’educazione debba dialogare con il mondo del lavoro per formare persone capaci di relazionarsi soddisfacentemente con esso, credo che oggi più che mai, leggendo quotidianamente di come le generazioni Y, Z e Alpha guardino sempre più utilitaristicamente al mondo del lavoro cercando in esso principalmente uno strumento per dare sostentamento e risorse per alimentare le loro passioni, ergo per crearsi una vita al di là del lavoro, sia necessario rimettere riporre al centro dell’obiettivo educativo non solo il lavoro ma un’immagine più ampia; di individuo come genitore, compagno, cittadino, fratello e non semplicemente come risorsa umana competitiva in un sistema economico ampiamente migliorabile. Forse questo pizzico di nuovo umanesimo non guasterebbe in una riflessione appiattita altrimenti ad una mera declinazione ed interpretazione dei descrittori di Dublino.

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