Sicurezza, violenza e democrazia

Quanto si affrontano le tematiche della sicurezza ci si trova sempre di fronte ad un paradosso rispetto alle politiche da adottare. La sicurezza in termini di istituzione dell’ordine pubblico è rappresentata per gran parte da politiche repressive. Reprimere i reati significa assicurare alla giustizia gli autori e, possibilmente, risarcire il danno. Il limite di questa politica è che l’intervento repressivo avviene sempre, e non potrebbe essere altrimenti, dopo il reato; mentre il danno, spesso, risulta irreparabile. In questi termini parlare di prevenzione non vuol dire altro che provare a ridurre le probabilità che si verifichi un danno causato da un reato. La riduzione e la gestione del rischio è l’obiettivo di ogni politica securitaria che incentiva i controlli da parte delle forze di polizia attraverso il presidio fisico e digitale del territorio. Rispetto a queste politiche la prevenzione diventa un fatto di dissuasione, la repressione dei reati dovrebbe convincere i potenziali autori di reati a desistere di fronte alla possibilità di essere puniti. Viste in questi termini le politiche securitarie appaiono come scelte razionali di chi si attrezza a difesa della propria fortezza dall’assedio esterno.

Che accade però quando il rischio o, peggio, la minaccia, non proviene più dall’esterno, ma si trova all’interno della nostra fortezza? E perché ciò può accadere? In questa situazione se si sceglie la logica amico/nemico il paradosso tende a diventare insormontabile, in quanto le pratiche di riduzione del rischio, in ambienti noti o familiari, più che a scongiurare l’evento, hanno la subdola capacità di evocarlo. Non solo, ma ogni attività di prevenzione si scontra con la libertà delle persone, dove le pratiche securitarie alla fine tendono a creare quella mancanza fiducia e di sicurezza che finisce con l’affermare proprio quella violenza che vorrebbe allontanare. Una situazione abilmente rappresentata nel mondo fantascientifico del film Minority Report, dove un solerte poliziotto a capo della “Prevenzione Crimine” appura, dai suoi predittori, di essere lui stesso il prossimo candidato alla commissione di un reato di omicidio; per cui suo compito, in quanto agente, diventa l’arresto preventivo del potenziale autore, quindi di sé stesso. Il film si sviluppa attraverso il doppio tentativo (o doppio legame) del protagonista di prevenire il reato e salvaguardare la sua stessa libertà, con risultati paradossali. Il messaggio finale è che risulta pressoché impossibile realizzare la prevenzione dei reati attraverso l’attività repressiva, per quanto raffinata e sofisticata questa possa diventare in termini di uso delle tecnologie e della previsione dei reati.

Queste contraddizioni diventano più forti quanto si parla di violenza contro le persone. Che fare allora, di fronte alla violenza, anche per evitare di incorrere delle contraddizioni del protagonista di Minority Report? Innanzitutto, bisogna considerare che le politiche securitarie nascono a difesa dei beni e considerano la persona stessa come il bene più prezioso; nelle azioni violente è proprio quest’ultimo ed estremo bene che viene colpito. In ogni caso bisogna dire che è giusto che sia presa in considerazione la misura di tutela oggettiva dei beni e del bene assoluto della persona. Tuttavia, bisogna ammettere che ciò non si dimostra sufficiente a realizzare una efficace e fruttuosa attività di prevenzione della sicurezza, in particolare quando si tratta di prevenire violenze contro la persona. Infatti, quando si parla di prevenzione della violenza in questi termini, bisogna lasciare da parte i beni, le proprietà, e il rischio e porre come obiettivo della azione preventiva la relazione.

La violenza infatti non riguarda, per così dire, le “cose”, ma riguarda le relazioni tra persone come riguarda anche le relazioni tra esseri viventi di specie diversa o della stessa specie. Da questo punto di vista bisogna partire dalla considerazione che la violenza si manifesta quando una relazione è malata. La violenza non può essere considerata una semplice pratica volta ad ottenere un vantaggio in modo considerato illegale, ma una pratica volta ad affermare un potere sulla vittima, un potere che riguarda il riconoscimento, o meno, della vita stessa o del diritto all’esistenza di quest’ultima. La violenza interrompe il rapporto sano, proficuo e reciproco, di collaborazione sociale, tra esseri della stessa specie e pone un problema di predominio in cui ad essere in gioco è la relazione stessa e il ruolo che si attribuisce ai soggetti in essa coinvolti; un gioco per vincere il quale si mette sul piatto la vita stessa dei partecipanti. La relazione diventa in questo caso un ambito di manifestazione del proprio potere da parte del soggetto dominante, e ciò avviene attraverso la minaccia e la violenza che porta fino alla soppressione dell’antagonista. Molte specie si comportano in modo da esprimere il predominio attraverso un rituale in cui si manifesta la superiorità di uno sull’altro rinunciando all’atto estremo della violenza. Gli esseri umani manifestano in questi contesti tutta la propria discendenza di primati, aggiungendo a questa la coscienza del gesto violento, che diventa malvagità assoluta in grado di arrivare fino soppressione premeditata della vita dell’altro. Il razionalismo e la socializzazione non sembrano aver scalfito questa matrice biologica del nostro comportamento violento amplificato, al contrario, proprio dal nostro essere coscienti e razionali.

I tragici eventi dello scorso secolo, come quelli odierni, insegnano come la razionalità stessa possa essere messa al servizio della violenza. Negli esseri viventi la prima forma di predominio è quello sessuale, da esso dipende la possibilità di sopravvivenza del proprio patrimonio genetico. In questo ambito, riguardo agli esseri umani, si rompe l’anello che ci lega agli altri e alla società e si innesca un processo che, attraverso il dominio sull’altro sesso, vuole affermare il potere e la stima che è dovuta al capo branco e quindi, per noi esseri coscienti, il proprio senso di autostima. Non è un caso che esistano tra esseri umani esibizioni di potenza attraverso l’ostensione del proprio predominio sessuale su giovani donne da parte di rimbambiti ricchi e potenti.

Ma qual è il meccanismo con cui agisce la violenza? La violenza agisce attraverso la strategia dell’isolamento. Tra gli umani la delegittimazione, la derisione, l’umiliazione sono la forma più subdola di isolamento che il comportamento violento adotta per poter colpire con efficacia la vittima predestinata. La capacità di isolare le vittime è la prima forma di affermazione del potere del capo branco. Questo potere si esercita all’interno di organizzazioni criminali come all’interno di forme malate di organizzazione sociale. Il bullismo, lo stalking e il mobbing non sono che variabili di una unica strategia di affermazione del potere da parte del soggetto violento in una relazione insana che si manifesta, innanzitutto, con l’isolamento della vittima. Nelle relazioni umane non si è mai del tutto esenti dall’eventualità del decadimento organizzativo verso queste forme patologiche. Si tratta di patologie delle relazioni sociali che ci portiamo dietro dagli albori dell’umanità.

Matriarcato e patriarcato non hanno niente a che fare con queste forme di malattia dei sistemi sociali; anzi, al contrario, hanno rappresentato una risposta a queste forme di degenerazione, magari con una risposta autoritaria, ma una risposta che ha permesso agli esseri umani di strutturarsi in una sempre maggiore complessità sociale ed evolutiva. Oggi la democrazia si contrappone ad ogni forma di autoritarismo poiché vuole affermare la libertà e l’individualità come valori. Per questo oggi la risposta non può risiedere in una formula di controllo sociale, ma risiede nel rispetto della dignità umana, della libertà che la legge e il diritto attribuiscono ad ogni essere. Le democrazie liberali non possono convivere con tali forme di violenza e, per questo, le denunciano e le contrastano con l’affermazione della legge, quella legge che promuove e tutela la persona nella loro dignità e nella libertà.

La libertà è innanzitutto uscita dall’isolamento attraverso la parola, attraverso la denuncia e il dialogo che porta le relazioni sociali verso il giusto equilibrio e il rispetto dell’altro. È questa la forza di chi oggi vuole contrastare la violenza, una forza che si esprime soltanto rompendo l’isolamento delle vittime promovendo e insegnando i valori che si fondano sul riconoscimento dell’altro, poiché, come scriveva Martha Nussbaum è dall’accoglimento, ognuno, della propria debolezza e dalla crescente attenzione per l’altro che si arriva ad affermare una maggiore propensione per il controllo della propria aggressività; e ciò avviene prima di tutto attraverso il riconoscimento che gli altri sono esseri distinti da noi con il pieno diritto di vivere la propria vita.

Questi principi elementari, insieme alla promozione della responsabilità e del pensiero critico, si dovrebbero trovare alla base di ogni forma di educazione ai valori della cittadinanza o di “istruzione alla democrazia” (Nussbaum) attraverso lo sviluppo di un senso morale fondato sull’empatia e i sentimenti sociali e non sulle capacità di dominio del capo branco come vuole il machismo e il machiavellismo popolare. È questo il paradigma che oggi bisogna cambiare nel nostro modello se vogliamo contrastare la violenza nella società: promuovere la capacità di mettersi nei panni degli altri ridefinendo lo statuto dell’individualità moderna come quella capacità di realizzarsi attraverso il bisogno di riconoscere l’altro e di essere riconosciuto, passando dall’individualismo razionale all’individualismo relazionale.

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