Ragionevoli dubbi sul caso Rosso

Il 10 giugno 2022 Roberto Rosso, ex assessore regionale del Piemonte, è stato condannato in primo grado dal tribunale di Asti a 5 anni di reclusione per voto di scambio politico mafioso. Secondo l’accusa, Rosso aveva pagato alcuni “boss” della ‘ndrangheta per ottenere il loro appoggio alle elezioni regionali del 2019. Dopo 6 mesi, il 10 dicembre 2022, sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza del 10 giugno: «(…) l’insieme di indizi fin qui considerati porta a ritenere provato il dolo di Rosso, e cioè la consapevolezza di rapportarsi ad appartenenti alla ‘ndrangheta e la volontà di avvalersi del loro aiuto (…)». La Procura, nella persona del pubblico ministero dottor Paolo Toso, il 19 gennaio 2023 ha presentato appello: «Ha mentito ai giudici, dargli solo cinque anni è troppo poco». Il 20 luglio 2023 la Corte d’appello di Torino, pur confermando la condanna di primo grado, ha ridotto la pena a 4 anni e 4 mesi. Il 14 gennaio 2024 sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza di condanna emessa il 20 luglio 2023 dalla Corte d’appello di Torino: «Il monitoraggio investigativo restituisce la prova certa di un soggetto politico, Roberto Rosso, che giammai ha disdegnato di assumere condotte evocative di continuità con l’operato di soggetti politici quantomeno contigui alla criminalità organizzata (si riporti in tal senso la formidabile evidenza costituita dall’assunzione della segretaria Raffaella Furnari, già segretaria della nuora di Nevio Coral, dimostrativa – al di là della pacifica estraneità della Furnari – dell’assoluta disponibilità del prevenuto a porsi in un solco di prosecuzione di un modus operandi proprio di politici coinvolti nel processo Minotauro)». La sentenza continua affermando che Roberto Rosso avrebbe accettato le proposte di sostegno elettorale degli inaffidabili Garcea e Viterbo (due boss delle cosche già condannati in separato giudizio), sprovvisti di competenze e referenze, corrispondendo loro 15 mila euro proprio prima della tornata elettorale quando le possibilità di intervento erano esigue. Risulta quindi evidente, anche dall’esoso pagamento “in nero”, che la remunerazione era rivolta alla ‘ndrangheta.

Il 15 dicembre 2021 i Procuratori della Repubblica, dottor Paolo Toso e dottoressa Monica Abbatecola, avevano chiesto per Roberto Rosso una condanna ad 11 anni di carcere, il 20 luglio 2023 la Corte d’appello di Torino gli ha comminato una pena di 4 anni e 4 mesi: il 60% inferiore alla richiesta della Procura! L’operazione Minotauro portò all’arresto di 142 persone di cui solo 75 furono rinviati a giudizio. Tra gli arrestati finì anche Nevio Coral, imprenditore e sindaco di Leini dal 1994 al 2005, che fu condannato in via definitiva a otto anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Per Roberto Rosso, invece, la “formidabile evidenza” che la Corte d’appello ha assunto come inconfutabile prova che si fosse posto “in un solco di prosecuzione di un modus operandi proprio di politici coinvolti nel processo Minotauro” è stata l’assunzione di Raffaella Furnari della quale, la stessa Corte d’appello, precisa la “pacifica estraneità”. L’avvocato della difesa, Giorgio Piazzese, ha comunque dichiarato che: «(…) negli atti del processo vi sono diverse possibili ricostruzioni logiche alternative. Quindi esiste un dubbio logico e ragionevole. Tutto ciò si risolve in una questione di diritto che potrà essere certamente affrontata in Cassazione».

Mi pare di capire che la Corte d’Appello, per supportare la sentenza di condanna, non si sia basata su prove dirette, ma su condotte assunte da Roberto Rosso evocative dei soggetti contigui alla criminalità organizzata, cioè su condotte che possono “ricordare vagamente percezioni ed emozioni” (come da vocabolario Treccani) riconducibili alla criminalità organizzata. Nel “diritto” la forma non deve e non può essere sostanza. Se un mio atteggiamento ricorda quello che in passato hanno tenuto soggetti che hanno violato la legge, non vuol dire che anch’io, evocando lo stesso atteggiamento, stia violando la legge. Resta una riflessione, rigorosamente non giuridica: se un politico ha stretto patti elettorali con la ‘ndrangheta, può prendere (solo) 4 anni e 4 mesi? Va da sé, sempre l’abbia fatto al di là di ogni ragionevole dubbio. “Ogni ragionevole dubbio”! L’art. 533 c.p. recita: «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato che gli viene contestato, al di là di ogni ragionevole dubbio».

Ma come può essere dimostrato “l’al di là di ogni ragionevole dubbio”? Purtroppo, qui i meandri legulei ci conducono su strade impervie. L’art. 187 cpp definisce come oggetti di prova “(…) i fatti relativi all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, (…)”. Gli oggetti di prova, o più semplicemente le prove, possono essere: materiali, oggetti direttamente collegati ai fatti e rilevati dagli inquirenti, oppure indiziari, basati su ragionamenti per cui da un fatto provato se ne ricava uno da provare. Il collegamento tra fatto provato e fatto da provare avviene attraverso un’inferenza, cioè attraverso una deduzione logica fondata su esperienze o su leggi scientifiche. Dalla filosofia sappiamo che l'inferenza è un ragionamento in cui da una o più premesse deriva una conclusione. Tali premesse, dette categoriche o dichiarative, possono essere sia vere che false e sia affermate che negate. Nel nostro ordinamento penale non è contemplato il principio di tassatività delle prove, cioè non è legislativamente imposta la norma che renda agevole desumere se una prova è lecita o non lo è. Il principio di tassatività della prova, nel progetto preliminare del codice di procedura penale, era contemplato nell'art. 179 in cui “il giudice non può ammettere prove diverse da quelle previste dalla legge”. Nel codice del 1988 questo principio non è stato previsto anche se con l’art. 189,1 c.p.p. si limita il giudice ad assumere le prove non disciplinate dalla legge (prove atipiche), solo se idonee ad assicurare l'accertamento dei fatti e non pregiudicanti la libertà morale della persona. Il principio fondamentale per la valutazione della prova è il libero convincimento, in virtù del quale è determinante non la valutazione vincolata di determinate prove, ma la libera valutazione del giudice, pur dovendo giustificarla nella motivazione. Il giudice deve vagliare l’attendibilità delle prove basandosi sulla credibilità della fonte di prova, l’idoneità della fonte a descrivere il fatto, e l’atipicità della prova. L’art. 192,2 cpp è considerato, per la prova indiziaria, una limitazione al libero convincimento del giudice in quanto consente che l'esistenza di un fatto sia desunta da indizi, a condizione che gli stessi siano gravi (indizi con un elevato grado di persuasività, in quanto resistenti alle obiezioni), precisi (indizi ampiamente provati) e concordanti (indizi orientati verso una medesima conclusione). Per la prova diretta il giudice deve compiere la sola valutazione di attendibilità poiché la prova ha per oggetto il fatto di reato, mentre per la prova indiziaria, poiché il fatto di reato è indotto da un altro fatto, debbono compiersi due valutazioni: la prima è l’affidabilità del fatto provato da cui deriva il fatto desunto e la seconda l’accertamento di poter risalire dal fatto oggetto di prova all'illecito penale.

Una locuzione latina esorta: “In dubio pro reo” «nel dubbio, (giudica) in favore dell'imputato». Questa frase, tratta dal Digesto giustinianeo (D.50.17.125), indica che quando non v'è certezza di colpevolezza è meglio che il giudice accetti il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che quello di condannare un innocente. Questa massima giuridica esprime il principio per cui l’interesse alla tutela dell’innocente prevale sull’interesse alla condanna del colpevole. Tale principio trova applicazione nel codice di procedura penale, art. 527, in cui si stabilisce che, nel deliberare la sentenza, «(…) qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all’imputato». Quindi, pur con tutte le cautele del caso, si constata che in Italia i magistrati requirenti, nel caso non abbiano rilevato, attraverso le indagini, delle prove dirette di un reato, l’articolo 192 del cpp li autorizza a ricercare prove indiziarie che un giudice, in un processo, potrà, secondo la sua discrezionalità interpretativa, valutarne l’ammissibilità ed in base ad esse decidere le sorti dell’imputato. Probabilmente se il nostro ordinamento giudiziario prevedesse la tassatività delle prove, il numero degli appelli e dei ricorsi alla Cassazione sarebbero inferiori, la durata dei processi sarebbe più breve, e, di conseguenza, la stragrande maggioranza dei cittadini avrebbe una “Giustizia” più giusta. Ricercare indizi è indispensabile al processo investigativo per trovare prove certe, gli indizi, però, non devono mai diventare l’obiettivo finale ma essere considerati come i prototipi in un processo industriale. Quale azienda, non riuscendo a consolidare il prodotto definivo, metterebbe sul mercato i prototipi? L’abuso di utilizzo di prove indiziarie da parte della procura della Repubblica potrà anche far condannare un colpevole in più, ma quanti innocenti finiscono in carcere ingiustamente? In uno Stato di diritto l’obiettivo della “Giustizia” non è condannare a tutti costi un colpevole accettando come “effetto collaterale” la condanna di innocenti. L’ing. Carlo Di Giacomo, mio amico e maestro, rifacendosi al Candido di Volterre, suol spesso ricordarmi che, sebbene sia meritorio cercare di ottenere il migliore obiettivo possibile, il meglio in assoluto è il peggiore nemico del bene!

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