Morti sul lavoro, reati fantasiosi

Ogni volta che si verifica un incidente sul luogo di lavoro, alcune organizzazioni sindacali, supportate da media e politici, urlano che “non è ammissibile andare a lavorare e rischiare di morire”. Qualcuno vorrebbe addirittura che il Parlamento predisponesse un’apposita legge penale sull’“omicidio sul lavoro”, come se l’omicidio di un soggetto che lavora fosse più grave dell’omicidio di uno disoccupato!

Il recente incidente che ha coinvolto a Casteldaccia, nel Palermitano, sei operai uccidendone cinque e ferendone uno gravemente, ha rinvigorito il dibattito già in essere a seguito dei sette morti causati dall’incidente del 9 aprile scorso alla idro-elettrica Enel di Bargi (Bologna). Secondo una prima ricostruzione, tre lavoratori della società di Casteldaccia che gestiva, in subappalto, la rete fognaria per Amap, invece di restare in superficie, come prevedeva il contratto, sono entrati nell’impianto di sollevamento delle acque reflue. Non vedendoli risalire, altri tre colleghi sono scesi. L’idrogeno di solforato (un gas tossico, asfissiante e infiammabile, dall’odore di uova marce che, inalato, attacca le mucose), che già aveva ucciso i primi tre, li ha investiti uccidendone due e lasciandone in fin di vita il terzo. Il settimo componente la squadra, non vedendo uscire i colleghi, ha dato l’allarme. Il sindaco di un paese vicino, proclamando il lutto cittadino, ha affermato che erano operai esperti e ha aggiunto: “Io credo che loro non se lo aspettassero, che nell'entrare in quella cisterna abbiano sottovalutato la situazione, al di là del fatto che avrebbero dovuto avere i dispositivi di protezione. (…) Pensiamo sempre che le tragedie succedano agli altri e invece quanto accaduto ci deve fare riflettere. La sicurezza sul lavoro è un problema culturale, chi fa questi mestieri deve avere necessariamente gli strumenti per lavorare nelle giuste condizioni. Io credo che quest’azienda li avesse, non la conosco personalmente ma mi dicono tutti essere un'azienda molto scrupolosa e attenta”. I sindacati hanno subito denunciato che: “La tragedia di Casteldaccia risponde a uno schema che si è ripetuto troppo spesso in questi mesi”: nel 2023 si sono contate 65 vittime di cui 16 a Palermo. Nella nota congiunta dei segretari di Cgil, Cisl e Uil siciliane si legge: “Sarà la magistratura a fare luce sulle cause, ma dovrà essere anche chiarito se le norme sulla sicurezza sono state rispettate e le conseguenti responsabilità delle ditte e del committente.

La Sicilia si trova ancora a piangere morti sul lavoro. Dati in crescita, ma non quello del personale degli ispettorati del lavoro, segnati da carenze di organico profonde che denunciamo inutilmente da tempo. Sono 1.043 i morti sul lavoro in Italia lo scorso anno. Promuovere la sicurezza in ogni luogo di lavoro, sollecitare gli opportuni interventi, è un nostro dovere”. Ovviamente, come nel caso di Bargi, è subito stato indetto uno sciopero in solidarietà alle vittime dell’incidente. Visto che lo sciopero, in relazione alla sua natura e ai suoi fini, si distingue in sciopero economico (attuato dai lavoratori per motivi di ordine economico), sciopero politico (indetto per esercitare pressioni sul potere politico in relazione a specifici temi), sciopero di protesta (contro provvedimenti considerati lesivi di determinati diritti o interessi) e sciopero di solidarietà (a sostegno di uno specifico già intrapreso da altri lavoratori), questo in quale categoria ricade?

Dopo la disgrazia di Barge, Salvatore Bernabei, amministratore delegato di Enel Green Power, ha affermato: “Questa centrale, come tutte le centrali, ha tutti i sistemi di controllo e di sicurezza che sono previsti”. Attualmente i sistemi di controllo della centrale Enel di Bargi sono a disposizione dell’autorità giudiziaria in quanto la procura di Bologna ha aperto un fascicolo per disastro ed omicidio colposo al fine di far luce sulla catena dei subappalti in essere. Purtroppo, sia nell’incidente di Casteldaccia sia in quello di Bargi, l’opinione pubblica non ha atteso le verifiche tecniche commissionate dalla magistratura agli esperti del settore, ma ha emesso condanne sommarie accusando in primis i datori di lavoro. E purtroppo la legge non aiuta, tanto è vero che, per permettere a Nicolò di Salvo, contitolare della società Quadrifoglio che stava svolgendo le attività in loco (il socio ha perso la vita nell’incidente), di nominare un proprio medico legale che possa assistere all’autopsia delle vittime, il procuratore della repubblica dottoressa Elvira Cuti ha dovuto emettere, come atto dovuto, un avviso di garanzia con accusa di “omicidio colposo plurimo”. Questo ha scatenato i media nel riportare titoli impressionanti in cui l’imputazione di omicidio colposo plurimo è la contestazione mossa dalla procura di Termini Imerese a Nicolò Di Salvo. Per molti lettori giustizia è fatta, Nicolò Di Salvo è un plurimo omicida!

Nel 2008, all’interno di un capannone adibito a deposito di lamiere, un lavoratore, dopo aver imbracato un pacco di lamiere e azionato la pulsantiera del carroponte per spostarlo, era stato colpito a causa di una oscillazione del carico. Durante tale operazione, anziché posizionarsi nell'area sicura delimitata da strisce colorate presenti sul pavimento, era rimasto nella zona di lavorazione “a rischio residuo”. La Corte di merito definendo “anomala” la condotta del lavoratore, che non aveva rispettato le linee di sicurezza, ha escluso ogni responsabilità datoriale, mentre la Corte di Cassazione, precisando che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza, con la sentenza civile sez. lav., 21/09/2021 n.25597, ha cassato la sentenza della Corte di merito.

In Italia, quindi, il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio del dipendente, sia in caso di omissione delle misure protettive, sia quando, pur predisponendole, non controlli e vigili che siano di fatto rispettate da “ogni singolo dipendente”: la condotta colposa del dipendente non può avere alcun effetto esimente, né rilevante, ai fini del concorso di colpa. Ma se il dipendente di un’impresa che installa antenne, nonostante la formazione ricevuta, le raccomandazioni e le attrezzature che il datore di lavoro gli mette a disposizione secondo gli obblighi di legge (kit imbragatura anti caduta, caschi protettivi, ecc.), sale sul tetto senza dotarsi volontariamente delle misure di sicurezza, e se, per un fortuito motivo, cade dal tetto e muore, è giusto che i dirigenti dell’azienda debbano rispondere in sede penale di tale infortunio sul lavoro?

“Inventare” nuovi fantasiosi reati penali, come l’omicidio sul lavoro, potrà servire a ridurre gli incidenti sul lavoro? Perché, se un datore di lavoro non ottempera alle norme di sicurezza stabilite dalla legge, ne risponde in giudizio, mentre il dipendente che non applica volontariamente tali norme, causando fortuitamente un incidente, non ne è totalmente responsabile? Perché il lavoratore salariato è condannato “de iure” ad essere sempre irresponsabile? Il filosofo Zenone di Elea ci insegna che, per comprendere il senso delle cose e avvicinarsi alla verità, spesso è utile portare i ragionamenti al limite del paradossale. In questo caso, se temendo di essere sempre e comunque colpevoli, i datori di lavori (pubblici e privati) si “licenziassero” dal proprio ruolo, anche i dipendenti sparirebbero in quanto non ci sarebbero più le imprese e quindi posti di lavoro. Non verrebbero più prodotti beni e servizi e di conseguenza “democraticamente” nessuno potrebbe più disporne. Una frase latina recita: “commune naufragium, omnibus solacium” (un naufragio collettivo è un sollievo per tutti). Che sia questo il metodo più veloce per raggiungere la bramata “decrescita felice”?

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