EMERGENZA ECONOMICA

Piccole imprese allo stremo: "Tempo quasi scaduto"

Parla il leader delle pmi di Confindustria, Robiglio: "Abbiamo bisogno di liquidità e di riprendere progressivamente la produzione". Stoccata ai sindacati: "In questa crisi hanno reagito con la pancia"

La clessidra si sta ormai svuotando, pochi granelli e poi a finire in lockdown sarà l’economia italiana. “Non c’è più tempo” è l’allarme di Carlo Robiglio, torinese di nascita e novarese di adozione, presidente nazionale di Piccola Industria, organizzazione della galassia confindustriale. Le piccole e micro imprese sono proprio quelle che rischiano di più in una situazione come questa col fatturato ridotto a zero e costi fissi che gravano sulle casse. “Avevamo chiesto al Governo liquidità a costo zero, da restituire sul lungo periodo – spiega Robiglio – qualcosa si è mosso ma dopo reiterate richieste e lunghe valutazioni, dallo Stato sono arrivate solo garanzie per prestiti onerosi e da restituire in sei anni”. Insomma, si aspettavano di più le piccole imprese, polmone economico del Nord-Ovest e non solo, ma inutile rimuginare, “ora è il momento di mettere soldi nelle casse dell’imprenditore, rendendo efficaci i provvedimenti assunti e più snelle le procedure” prosegue Robiglio.

Parla a ruota libera, appena conclusa una riunione del nuovo ufficio di presidenza della sua organizzazione che Robiglio ha schierato al fianco di Carlo Bonomi nella disputa per la conquista di viale dell'Astronomia, nonostante la candidatura della corregionale Licia Mattioli, sostenuta da gran parte del sistema imprenditoriale piemontese. Ora però il pensiero è tutto rivolto alle tante piccole aziende che annaspano nei marosi della crisi: “La situazione è sempre più grave, se a fine mese non arriva la liquidità, migliaia di imprese non saranno più in grado di pagare le fatture e riprendere il ciclo produttivo”. Anche perché intanto, oltreconfine, c’è chi sta andando avanti. Come spiega Robiglio “viviamo in una società dove l’impresa è all’interno di filiere nazionali, ma soprattutto internazionali; quella che noi definiamo la catena globale del valore. Se migliaia di imprese italiane fermano la produzione non possono esportare e fornire il proprio prodotto, rischiando di essere espulse dalla filiera a vantaggio di altri competitor che hanno potuto mantenere attiva la produzione”.

In queste settimane il mondo dell'industria è stato messo all’indice da virologi, sindacati, certa politica e tanta gente comune. Siete tornati a essere i padroni che pensano al business a scapito della salute, irresponsabili schiavi del fatturato. È così? “Nulla di più falso – replica Robiglio –. La responsabilità sociale dell’imprenditore va oltre il proprio business. Migliaia di imprenditori vivono la loro impresa come ecosistema che dà lavoro e sostiene territori e famiglie. Lavoro e salute non sono ambiti contrapposti, sono due facce della stessa medaglia, che devono saper convivere. Le priorità assolute sono salute e sicurezza, ma attenzione a quel che potrebbe succedere se collassa il nostro sistema imprenditoriale. La conseguenza sarebbe un’esplosione della disoccupazione, intere famiglie senza reddito, l’impoverimento di intere aree geografiche e, non ultimo, un grave problema sociale e di ordine pubblico”.

La mente torna a più di dieci anni fa, con la crisi del 2008 e 2009, i suicidi di imprenditori strozzati dai debiti, gli operai a casa. “Il piccolo imprenditore spesso è il primo a entrare in officina e l’ultimo a prendere lo stipendio, che spesso è di poco superiore a quello dei suoi dipendenti”. Un messaggio rivolto anche ai sindacati con i quali “in questi due anni c’è stata una proficua interlocuzione, un confronto aperto e costruttivo su molti temi, penso al patto per la fabbrica o allo scambio salario-produttività”. Con l’arrivo della crisi, però, qualcosa si è rotto: “In questa emergenza hanno parlato con la pancia, riesumando vecchie parole d’ordine anti-impresa che non sentivamo da anni. Un atteggiamento che ci ha fatto male, perché hanno scaricato su di noi la responsabilità di tenere in piedi la baracca”.

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