DIRITTI & ROVESCI

Trattatelo come un boss, scarcerate Roberto Rosso

Mentre per l'emergenza Coronavirus escono dal 41 bis condannati in via definitiva per mafia, l'ex assessore regionale è da 5 mesi recluso in attesa di processo. La vicenda del "presunto innocente" ricostruita da chi ha condiviso con lui anni di impegno politico

Nei giorni in cui il Governo, per cercare di salvare la poltrona del ministro di “Disgrazia e Ingiustizia”, Alfonso Bonafede, tenta di mettere una toppa penosa alla scarcerazione di alcuni boss mafiosi usciti per l’emergenza Coronavirus varando un decreto che detta nuove regole ai magistrati di sorveglianza, è doveroso ragionare su una categoria di detenuti dimenticata dalla copiosa produzione legislativa di Conte & soci: i detenuti in attesa di processo. In cella c’è quasi un sesto della popolazione carceraria che aspetta il primo giudizio: 9.233 detenuti su 58.592. Per queste persone, alle quali la Costituzione attribuisce la qualifica di innocenti fino al terzo grado di giudizio, la sospensione delle udienze fino all’undici maggio, prevista dai vari Dpcm, sta diventando una vera e propria “sentenza” allungando i tempi della custodia cautelare. Per i 9.233 innocenti che stanno in cella, infatti, non vale l’applicazione della norma “svuota carceri”,  che ha mandato a casa i boss, introdotta per ridurre il sovraffollamento e valida solo per chi è già stato condannato e ha pene residue fino a 18 mesi. L’esito è che, in quello che dovrebbe essere uno Stato di diritto, i mafiosi vanno a casa e gli innocenti stanno in carcere.

Tra questi 9.233 innocenti in carcere c’è Roberto Rosso, che è stato arrestato il 20 dicembre dello scorso anno e il 20 maggio completerà il suo quinto mese di detenzione. Cinque mesi passati in carcere con l’accusa infamante di aver praticato il voto di scambio con la ‘ndrangheta, senza aver alcuna possibilità di rigettarla di fronte ad un giudice. Rosso non è avvolto da un alone di simpatia: la sua lunga carriera politica, i suoi difetti caratteriali, i cambi di casacca studiati per rimanere in sella hanno fatto di lui uno dei politici più longevi del Piemonte: di conseguenza, uno dei più odiati. Ma una cosa è essere antipatici e un’altra è essere socialmente pericolosi. Perché se esistesse una condanna per gli antipatici saremmo tutti in carcere.

I suoi legali hanno presentato varie richieste finalizzate alla concessione degli arresti domiciliari, ma sono state sempre respinte dal Tribunale del Riesame che lo scorso febbraio aveva scritto, rifiutando la misura, che anche le dimissioni di Rosso dalla Giunta e dal Consiglio Regionale non escludevano i rischi di reiterazione del reato, perché l’ex parlamentare non aveva annunciato l’intenzione di abbandonare in via definitiva la politica. Secondo i giudici Roberto Rosso, che ha negato con decisione durante gli interrogatori di sapere che i suoi interlocutori fossero legati alla ‘ndrangheta, si sarebbe dimostrato “incapace di percepire qualunque disvalore della condotta contestata” e la “mancata rivisitazione critica del suo passato” sarebbe “un elemento che attesta la sua disponibilità a reiterare il meccanismo criminoso ricalcando dinamiche analoghe, vuoi con interferenze illecite, vuoi con accordi illeciti seppur riferiti ad altre procedure diverse da quelle elettorali, essendosi dimesso dalle cariche rivestite e non certo dalla politica”.

Avendo i giudici conseguito almeno una laurea per esercitare il loro ruolo e immaginando che abbiano letto almeno una volta quanto affermato da Aristotele nelle sue opere, e cioè che l’uomo sia “per natura un animale politico” (a maggior ragione un uomo come Rosso che ha fatto della politica la sua vita), si viene sfiorati dal sospetto che le “dimissioni dalla politica” possano coincidere solo con la morte dell’uomo.

Perché tenere a tutti i costi un sessantenne dietro le sbarre per fiaccarlo nel morale? Un ex parlamentare, quasi in età da pensione, non è certamente un pericoloso Dillinger che può darsi alla macchia. Gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico sarebbero un’opzione più umana. Forse su Rosso pesa il fatto di essere stato un uomo potente appartenuto ad uno schieramento politico che non è mai stato tenero con la magistratura. O forse il fatto di essersi schierato contro il “Sistema Torino” di cui la magistratura sabauda fa parte.

Se non ci fosse stato l’arresto qualcuno avrebbe persino potuto iniziare a scrivere un libro su di lui che ha avuto una carriera unica in Piemonte. Parlamentare per quasi vent’anni, due volte sottosegretario, coordinatore regionale di Forza Italia per quasi dieci anni, consigliere regionale per due volte e per due volte in giunta, due volte candidato a sindaco di Torino e consigliere comunale della capitale sabauda, consigliere provinciale di Vercelli per due mandati (con la Dc e con Forza Italia), più volte consigliere comunale di Trino e vicesindaco della sua cittadina fino a poco tempo fa. Questo è il passato di cui Rosso dovrebbe fare una “rivisitazione critica”? Una vita spesa nelle istituzioni al più alto livello senza mai un’ombra, fino al processo per la vicenda “Terre d’Acqua” in cui la sua vita personale è stata girata come un calzino e discussa in un’aula di tribunale per giungere all’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. In Italia, infatti, esiste l’istituto dell’assoluzione che può giungere anche dopo la gogna mediatica e la condanna della pubblica piazza.

Per sostenere che Rosso sapeva di trattare con la malavita la Procura ha citato l’interrogazione del parlamentare del Pd Vinicio Peluffo, firmata anche da lui, con la quale si chiedeva di approfondire i rapporti tra l’allora prefetto di Lodi, Pasquale Antonio Gioffrè (nominato il 7 aprile scorso prefetto di Novara), e alcuni presunti ‘ndranghetisti tra i quali Onofrio Garcea, l’uomo con il quale Rosso si è incontrato in campagna elettorale. Possono bastare alcune foto, qualche intercettazione “di sponda” e un’interrogazione parlamentare per tenere un uomo cinque mesi in carcere? Pare di sì.

Rosso è un cittadino italiano che allo stato dei fatti ha diritto alla presunzione di innocenza e deve essere processato con celerità per non portarlo a sentenza di terzo grado alla soglia dei settant’anni: non deve marcire in carcere prima di una condanna. Lo dice la Costituzione.

Stupisce il silenzio della politica: di tutti quelli che lo hanno conosciuto e hanno lavorato con lui in questi anni e che ancora siedono nelle istituzioni. Di tutti quelli che tacciono ma in altre sedi si proclamano paladini della Costituzione. Scaricato brutalmente dagli “amici” e dal centrodestra. Non una parola, non un’iniziativa per fargli riconoscere i suoi diritti. Dove è finito il garantismo dettato dalla Costituzione? Il centrodestra ne è stato alfiere per anni, quando la magistratura attaccava Berlusconi, ma con la guida della Lega è passato dalla parte dei manettari per raccattare qualche voto. Una situazione indegna di un paese civile che, badate bene, potrebbe accadere con le stesse modalità a ciascuno di noi. Verificate sempre i precedenti penali delle persone con cui parlate o che qualcuno vi presenta al bar? Come ha scritto il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida: “Fino a che un reato non è stato provato in tribunale, la carcerazione non può essere applicata in conseguenza di quel reato. Ma solo – lo dice la parola – come misura preventiva rispetto a possibili rischi per le indagini o per la comunità”.

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