EMERGENZA SANITARIA

Ancora troppi morti per Covid.
Gli esperti sul caso Piemonte

Calano contagi e ricoveri, ma restano alti i decessi. Di Perri: "Pesa l'anzianità della popolazione, però c'è qualcos'altro che va studiato". L’epidemiologo De Micheli: "Occorre valutare la letalità tra i ricoverati. Protocolli troppo restrittivi sui farmaci"

“C’è qualcosa che ancora ci manca per spiegare compiutamente questo fenomeno”, ammette il professor Giovanni Di Perri. Il fenomeno di cui parla il primario di Malattie Infettive dell’Amedeo di Savoia e direttore scientifico del Dirmei è quello che interroga, ancora senza una risposta, sul perché il Covid mieta così tante vittime in Piemonte rispetto ad altre regioni. E poi, ancora, perché a fronte di una pur lieve flessione dei contagi e dei ricoveri i numeri più ineluttabilmente tragici persistano a restare alti.  

“Il fatto che il Piemonte ha una popolazione più anziana, con la terza età media più elevata d’Italia, è un fattore importante”, ma non l’unico per cercare di spiegare quei morti che dall’inizio della pandemia sono ormai 6.568, come se un Piemonte fosse sparita una cittadina di provincia, un quartiere di Torino. Ieri il bollettino ne ha indicati 62, il giorno prima 54 e in quelli precedenti erano ancora di più. “Un alto numero di infezioni ci dice che il Covid è arrivato dove non avrebbe dovuto e questo fa fede con la seconda parte di questa seconda ondata. Nella prima parte i morti erano molto bassi, evidentemente – osserva Di Perri – un mese fa il virus ha raggiunto i più vulnerabili e adesso li contiamo come vittime”.

Una differenza temporale tra il contagio, l’acuirsi della malattia fino al tragico epilogo e i dati che indicano come la curva dei casi accertati con i tamponi abbia incominciato a debolmente a flettersi. Un ulteriore elemento per spiegare quel che resta un caso che pone più di un interrogativo potrebbe venire, come sottolinea l’epidemiologo Vittorio De Micheli “da un’analisi della letalità, ovvero dividendo il numero dei decessi con i casi e non con la popolazione”. Ancor più interessante per l’ex direttore del Seremi, il servizio di regionale di epidemiologia e già direttore della Sanità piemontese oggi direttore sanitario dell’Agenzia Tutela della Salute di Milano, potrebbe essere “la valutazione della letalità sui ricoverati. Da questo dato, comparandolo con quello di altre regioni e verificando lo stato dei pazienti al momento del ricovero e la loro e evoluzione clinica, si potrebbero ricevere indicazioni circa possibili differenze sulla tempestività o meno del ricovero come tra i possibili fattori che concorrono ad avere questo tasso di decessi”. Poi, come osserva ancora De Micheli, c’è l’irrisolta questione della classificazione dei decessi per Covid. “Noi contiamo le persone che avevano avuto tampone positivo e non risultano guarite come decessi Covid, questa modalità che nelle prima emergenza andava bene adesso ci mette nei confronti tra le regioni un po’ in difficoltà perché ci potrebbero essere delle differenze nei conteggi. L’accuratezza più o meno elevata con cui, per esempio, vengono tolti i guariti dal computo potrebbe falsare i numeri”.

La seconda ondata, pur con situazioni meno diffuse rispetto alla prima, ha comunque visto ancora molte difficoltà nella medicina del territorio e la stessa rete ospedaliera ha mostrato evidenti necessità di aumentare posti letto in momenti in cui l’eventualità di un collasso era molto vicina. Anche questo può aver concorso ad aumentare i decessi? “Sicuramente la rete ospedaliera di Torino è la più obsoleta di tutte le grandi città d’Italia, l’ultimo ospedale nuovo inaugurato è il Martini e siamo nei primi anni Settanta, questo la dice lunga. Io – ricorda Di Perri – ho lavorato in Veneto e ogni volta che torno in quella regione c’è un pezzo di ospedale nuovo. Il saccheggio sulla sanità che è avvenuto in tutta Italia negli ultimi vent’anni in Piemonte è stato piuttosto pesante. Detto questo dobbiamo anche dire che negli ultimi giorni la pressione dei ricoveri è andata calando”. Anche nelle terapie intensive, pur con un andamento altalenante, come dimostrato dal dato di ieri che indicava 9 posti occupati in più rispetto al giorno  precedente. E sempre a a proposito della rianimazioni sarebbe interessante conoscere i dati dei pazienti trasferiti in reparto perché meno gravi e di quelli che, purtroppo, non ce l’hanno fatta.

“Nella prima ondata purtroppo sono stati lasciati a casa pazienti che si sarebbero dovuti ricoverare, ma in questa seconda fase della pandemia la situazione è cambiata”, osserva De Micheli che nel suo ruolo di componente della cabina di regia per il monitoraggio Covid del ministero della Salute esclude che pur di fronte a una situazione critica delle terapie intensive si sia dovuto applicare il triage previsto dal protocollo dei rianimatori per scegliere chi provare a salvare ricoverandolo in rianimazione. “Per fortuna, non si è mai arrivati a situazioni del genere”.

Tornando, sempre per cercare risposte sull’elevato numero di morti, alla medicina del territorio e il rapporto con quella ospedaliera, l’epidemiologo non nega che “le regioni con una sistema territoriale da anni più avanzato fanno un po’ meglio delle altre, però non credo che chi ha reti territoriali piu deboli non riesca a fare il monitoraggio dei pazienti, che è fondamentale”. Più critico, sempre su questo fronte, De Micheli lo è riguardo al recente protocollo ministeriale per le cure domiciliari, assai restrittivo sui farmaci tanto da aver fatto dire all’assessore alla Sanità Luigi Icardi che il Piemonte continuerà ad applicare il suo. 

“Il protocollo del ministero sembra scritto avendo più a mente le difese medico legali che altro. Per questo solidarizzo con quei medici che in Piemonte come in altre regioni chiedono che vengano sdoganati alcuni farmaci: medici volenterosi che si sentono di assumersi un po’ di responsabilità terapeutica”. Per l’epidemiologo “siamo arrivati all’assurdo di avere una sentenza di un Tar che vieta di visitare i pazienti a casa ai medici di famiglia. Ne conosco decine che stanno facendo il loro mestiere come lo hanno sempre fatto e se si sentono di prescrivere alcuni farmaci non vedo perché glielo si debba impedire. Il Covid è una malattia respiratoria acuta che purtroppo ha una brutta letalità, ma in molti casi può essere trattata a domicilio e chi se la sente di farlo con responsabilità non va fermato”.

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