Partiti, un passato che non tramonta

Sono cresciuto in una stagione storica e politica dove esistevano i partiti. Sì, partiti autenticamente democratici, collegiali, contendibili e dove il confronto e il dibattito interno – anche duro e spietato – era la regola e non una eccezione. Partiti caratterizzati dalla presenza di correnti organizzate che rappresentavano pezzi reali di società – con i loro interessi trasparenti e le loro domande, ansie ed istanze – e non soltanto filiere personali e clientelari o cordate di potere di clan e familiari. Partiti, soprattutto, che elaboravano idee e progetti politici e, soprattutto, ricette programmatiche e di governo. Infine, ma non per ordine di importanza, partiti che contribuivano a produrre e a creare autentica e qualificata classe dirigente. A livello nazionale come a livello locale.

Ora, e senza alcuna regressione nostalgica, non si tratta di limitarsi a rimpiangere un passato che non ritorna più. Come ovvio e scontato. Ma, molto più semplicemente, si tratta adesso di capire se l’alternativa a tutto ciò sono i partiti personali, le ammucchiate elettorali, i programmi populisti, le classi dirigenti improvvisate e casuali, le culture politiche abbandonate e la pura e semplice spettacolarizzazione della lotta politica. Certo, nessuna stagione politica – anche quella in cui la politica esisteva e lo potevi constatare oggettivamente – può e deve essere santificata. Ma è indubbio che, dopo ormai una lunga stagione populista, demagogica, qualunquista ed esageratamente personalizzata, forse è anche arrivato il momento per invertire la rotta.

Detto con altre parole, far sì che ritornino semplicemente i partiti. E, soprattutto, la democrazia all’interno dei partiti. Perché quando un partito si riduce ad apprendere qual è la linea politica leggendo un’intervista del suo capo ad un quotidiano o quando chi legittimamente e democraticamente dissente viene gentilmente invitato ad andare altrove, è evidente che è l’intero sistema politico ad essere viziato alla sua origine. Anche perché, come diceva quasi profeticamente Carlo Donat-Cattin a metà degli anni ’80 – e quindi in tempi non sospetti – “se vuoi sapere cosa pensa un partito della riforma delle istituzioni, è appena sufficiente verificare come quel partito pratica la democrazia al suo interno”. Una riflessione particolarmente calzante anche e soprattutto in una fase di annunciate riforme istituzionali e costituzionali. Altroché la denuncia della deriva illiberale, della torsione autoritaria, della violazione costituzionale e della – solita e ormai anche e un po’ noiosa – “minaccia fascista” da parte dei leader e capi dei partiti personali dove la democrazia interna è solo un optional ad uso e consumo dei tifosi che, per dirla con Norberto Bobbio, si limitano ad una stanca e grigia “democrazia dell’applauso”.

Per queste semplici ragioni politiche, e culturali, si deve invertire la rotta. Perché attorno al ritorno della “democrazia dei partiti” e della “democrazia nei partiti”, si gioca anche e soprattutto il futuro della democrazia. E proprio il passato, al riguardo, può esserci di grande e fondamentale aiuto.

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