L'ultimo caffè al San Carlo

Un bivacco sistemato per la notte, un cumulo di coperte circondato da bicchieri di plastica vuoti ammucchiato davanti alla porta d’ingresso di un locale chiuso: è questa un’immagine di abbandono, della fredda applicazione delle leggi di mercato che si abbatte con brutalità sul territorio.

Il Caffè San Carlo ha cessato di esistere dopo 198 anni di attività. Nel mese di novembre scorso sono state abbassate le serrande per l’ultima volta: stucchi dorati e storia centenaria giacciono ora in uno scenario fatto di banconi smontati e cavi elettrici penzolanti.

La proprietà (Banca Intesa San Paolo) ha voluto scommettere su nuovi business, mostrandosi incurante delle vicende che sin dal 1822 hanno consegnato notorietà al salotto cittadino per antonomasia, e ha così valutato fosse ora di sfrattare quel famoso angolo della vecchia Torino (malgrado il consistente canone d’affitto pagato mensilmente dai gestori).

Sorseggiare un liquore o un buon caffè al San Carlo è sempre stato un rito molto apprezzato dai torinesi di tutte le estrazioni sociali. Due passi in centro sotto Natale non potevano definirsi tali senza aver fatto tappa nell’Ottocento torinese. Le fasi storiche dell’unità nazionale hanno avuto luogo anche nelle taverne e nei caffè della capitale sabauda (molto irrequieta durante l’epoca risorgimentale). L’arresto e la deportazione a Fenestrelle di Ducco nel 1832 a causa della sua dichiarata simpatia verso Mazzini, e la chiusura d’autorità del suo locale “carbonaro” posto ai bordi dell’antica piazza d’armi (proprio il San Carlo), narrano di un tempo dominato dagli ideali e dallo slancio romantico dei frequentatori.

Una fine triste e ingloriosa per uno dei più importanti luoghi simbolo di Torino. La decadenza di una metropoli si misura anche guardando una piazza centrale che perde i suoi ritrovi centenari per lasciar spazio al nulla (stessa sorte qualche anno addietro per il famoso Caval ‘d Brons).

Ogni serrata, ogni sfratto, racchiude drammi sociali e familiari. Posti di lavoro cessano improvvisamente di esistere liberando incertezza e povertà. I lavoratori lasciati a casa dalle scelte dai vertici di Intesa San Paolo vanno ad aggiungersi ai dipendenti definiti “in esubero” dal commissario del Teatro Regio di Torino.

Il tempio piemontese della lirica ha negli anni accumulato debiti per circa 10 milioni di euro. La gogna mediatica ha fatto ricadere la colpa del grave deficit di bilancio sulle spalle del nuovo sovrintendente della fondazione artistica, mettendo un velo d’oblio su passati sindaci e dirigenti del teatro stesso: come d’uopo, ogni torinese potrà così accusare del dissesto chi vuole, mentre i veri responsabili verranno infine dimenticati. A fare le spese della pessima gestione finanziaria saranno invece le famiglie dei 15 dipendenti a tempo determinato i cui contratti non verranno rinnovati: vittime sacrificali nel nome del risanamento economico.

L’accordo sottoscritto tra le parti sindacali e l’ente lirico è la prova assoluta della irrimediabile disfatta in capo alla Cultura e ai diritti del lavoro, soprattutto laddove i termini dell’accordo prevedono per i “non confermati” una sorta di buono uscita riscattabile a condizione che la risoluzione del rapporto lavorativo sia consensuale. In sintesi, i dipendenti per aver diritto a una dignitosa liquidazione non dovranno disturbare il manovratore.

La situazione non è di certo più rosea all’aeroporto di Caselle Sandro Pertini, dove nel mese di luglio 2001 è stato raggiunto il traguardo di oltre 2 milioni di passeggeri. Questo dato ha creato in quell’anno un percorso obbligato, consistente nella cancellazione del monopolio della gestione dei servizi a terra (all’epoca affidato a Sagat, società a controllo pubblico), a favore di un secondo imprenditore: la società privata Aviapartner. L’esternalizzazione ha sin da subito generato molte preoccupazioni tra i dipendenti, che si sono ritrovati improvvisamente precari “di fatto”.

Timori rilevatisi fondati quando Aviapartner ha colto l’alibi fornito dalla crisi, conseguente all’epidemia virale, per confezionare il “Piano di esodo incentivato”: un cinico modello aziendale di riduzione dell’organico molto simile a quello adottato per gli “esuberi” del Teatro Regio. L’azienda ha deciso inoltre di salvaguardare gli utili sociali tramite misure unilaterali, tutte a svantaggio dei lavoratori, quali la rateazione della “residuale” tredicesima e la sospensione dell’anticipo della cassa-Covid19.

La metropoli piemontese non riesce proprio a trovare una sua dimensione dopo la fine dell’epoca Fiat. La fuga all’estero degli stabilimenti automobilistici, malgrado le periodiche partite a scopone tra il sindaco di turno e l’amministratore delegato, ha creato un enorme buco nel tessuto lavorativo, che appare incolmabile. Cultura e Turismo non sembrano possedere chance nel ricoprire un ruolo primario nell’economia cittadina postindustriale.

La cecità di imprenditori e politici ha già cancellato parte della Torino del fermento politico, sociale e risorgimentale. Una sola tradizione resiste al “Nuovo che avanza”: i dirigenti possono permettersi di sbagliare, ma a pagarne le conseguenze sono sempre e solo i lavoratori.

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