SACRO & PROFANO

Seminari vuoti e scontri ideologici, Chiesa piemontese al crepuscolo

A Torino la carestia vocazionale costringerà a nuovi accorpamenti di parrocchie. In vista del successore di Nosiglia il fronte progressista tenta l'ultima spallata. Alla lista dei "papabili" si aggiunge il vescovo di Mondovì. L'altolà del novarese Brambilla al clero subalpino

Ieri, sabato 5 giugno, sono stati ordinati in cattedrale dall’arcivescovo Cesare Nosiglia, tre nuovi presbiteri. Si tratta di Eduard Blaj, 41 anni di origine rumena, Paolo Mietti di 37 anni e Marco Vitale di 47. Gli ultimi due non sono però diocesani, ma appartengono alla Fraternità della Speranza del Sermig di Ernesto Olivero. In sostanza, per l’arcidiocesi di Torino, quest’anno è stato ordinato un solo prete e il saldo, negativo da parecchi anni, tra sacerdoti defunti e ordinati, sta rapidamente precipitando e la situazione collasserà quando, fra non molto, se ne andrà quel che resta delle massicce ordinazioni della stagione preconciliare.

Quello del forte calo, anzi della quasi scomparsa delle vocazioni in Piemonte, è uno dei problemi, fra i tanti, che assillano Papa Francesco il quale si sente – ed è – piemontese di origine e di cui parla il dialetto. Più volte, ricevendo vescovi e preti della regione ha alluso – in forma criptica e interrogativa come è suo costume («Cosa succede in seminario a Torino?») – alla drammatica situazione del clero subalpino. Uno dei segreti meglio custoditi – si fa per dire – della diocesi è quello del numero degli aspiranti al sacerdozio del seminario arcivescovile, dove regna da anni un ferreo discernimento di tipo psicologico. Qualcuno dice siano, per tutti i corsi annuali, quindici, altri venti, altri di più, tenuto conto che nello spazioso e ormai sovradimensionato edificio di via Lanfranchi si prepara e studia anche uno sparuto gruppo di giovani di altre diocesi. A tutt’oggi, sono diciassette i seminaristi della diocesi di Torino. Rimanendo in tema di vocazioni, vi sono poi diocesi, come Aosta o Casale Monferrato che da tempo hanno risolto il problema affidando le parrocchie ai volenterosi preti africani, ben contenti di insediarsi negli ameni paesi collinari e nei ridenti borghi alpini. A Pinerolo, ancora con monsignor Piergiorgio Debernardi, le vocazioni sono state appaltate ai neocatecumenali i quali, com’è noto, anche quando gli sono affidate le parrocchie, rispondono sempre in primis ai loro superiori e poi al vescovo. I seminaristi di tutte le quattro diocesi del Cuneese non raggiungono le dita di una mano. Novara è un caso a sé e guarda a Milano di cui si sente quasi suffraganea, soprattutto per la formazione.

Una delle gravi accuse rivolte in passato ad alcuni preti era di voler creare un seminario parallelo a quello diocesano, al fine di impartirvi una formazione tradizionale. Il progetto sembra sia in atto sul versante opposto, quello progressista. Pare che a Bra, presso i due fratelli parroci e ferventi “boariniani”, don Giorgio e don Gilberto Garrone, abbia preso piede una forma comunitaria di «discernimento» vocazionale per giovani, da avviare poi allo studio teologico di Fossano dove gli allievi sono di poco superiori ai docenti, preoccupati questi ultimi di una eventuale soppressione dell’istituto, dovuta anche agli elevati requisiti di qualità, recentemente richiesti dalla Congregazione dell’educazione cattolica e che mettono in forse persino l’esistenza della facoltà teologica di via XX Settembre. A ciò si aggiunga l’istituzione, presso l’università di Torino, del corso di scienza delle religioni affidato alla direzione del brillante studioso del cristianesimo e “antisindonologo” Andrea Nicolotti. Sui  temi della formazione seminaristica e teologica in Piemonte, sono noti gli interventi critici del milanese vescovo di Novara e acuto teologo, Giulio Brambilla, recentemente nominato presidente della commissione episcopale per la dottrina della fede della Cei e che pare abbia, in tale sede, espressamente chiesto al nunzio apostolico in Italia di escludere dalla cattedra episcopale del capoluogo regionale qualsiasi vescovo o prete proveniente dalla diocesi di Torino ove, secondo lui, non vi sarebbero figure di rilievo, soprattutto nel campo accademico, le uniche degne di assurgere all’episcopato.   

Su tutto veglia una eminente e poco conosciuta figura femminile. Si tratta di suor Anna Bissi, psicologa e psicoterapeuta, fondatrice della fraternità monastica della Trasfigurazione con sede a Vercelli e ispiratrice del cardinale vercellese Giuseppe Versaldi, già vescovo di Alessandria e, attualmente, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica. Decisiva nel percorso vocazionale e poi nella carriera di diversi preti torinesi, suor Anna, che veste da laica e si presenta come una vispa e colta vecchietta, secondo alcuni è la vera erede di don Sergio Boarino.

Intanto, hanno avuto clamore mediatico le accuse rivolte da tempo ai due religiosi della congregazione del Verbo Incarnato, ai quali il vescovo Nosiglia ha affidato le parrocchie periferiche di Maria Madre della Chiesa in via Baltimora e del beato Piergiorgio  Frassati in via Pietro Cossa. Un gruppo di fedeli di quest’ultima, si lamenterebbe della pastorale antiquata messa in atto dai religiosi in cui si parlerebbe troppo di peccato e di inferno. Un gruppo di giovani – e questo già dice molto – si sarebbe recato dal vescovo sostenendo invece l’apprezzamento verso la catechesi, la liturgia e l’attenzione ai poveri svolta dai padri e dalle suore della comunità. Infatti, nella parrocchia di via Baltimora dove è in atto la stessa pastorale, non si sono avute recriminazioni di sorta. Circola voce che dietro gli attacchi ai religiosi e, in un’ultima analisi, allo stesso Nosiglia, si nascondano non soltanto ragioni di natura dottrinale o pastorale, ma interessi alquanto più materiali e profani e che l’episodio rientri in quelle “guerre ecclesiali” che hanno di mira non il bene dei fedeli, ma soltanto quello di prevenire il nuovo vescovo verso ogni minimo, anche se più che ortodosso, disallineamento dai consueti schemi ideologici.

Giovedì 28 maggio ha avuto inizio l’assemblea diocesana che, in pratica, apre la stagione sinodale alla quale il Papa ha chiamato la Chiesa. Dopo l’analisi del sociologo Franco Garelli, si è svolta la relazione di don Duilio Albarello sul tema “Vino nuovo in otri nuovi. Quattro conversioni pastorali”, sulla quale torneremo prossimamente. Per ora basti dire che il teologo di Mondovì, al quale il suo vescovo, il lodigiano Egidio Miragoli, nonché – notizia dell’ultima ora – anche lui in corsa per Torino, tenterebbe, finora senza successo, di affidargli una parrocchia, dopo i doverosi richiami alla Sacra Scrittura, ha esordito subito citando – guarda caso – il vescovo di Pinerolo monsignor Derio Olivero.

Per il candidato principe alla cattedra di San Massimo, il dovere oggi della Chiesa non è, riecheggiando il Papa, quello di «occupare spazi» ma di «creare processi, cioè aiutare le persone a camminare verso obiettivi comuni». Dopo i successi alla Cei e il mite rabbuffo – che cosa sarà mai per un successore degli apostoli omettere il Credo! – del cardinale Ladaria – circola in questi giorni in rete un video, in cui l’onnipresente buon vescovo Derio, annuncia il “Festival della fraternità”, iniziativa che contribuirà,    passata la pandemia, a riflettere sulle relazioni umane da ricostruire così come gli incontri, specie conviviali. Occorre fraternizzare con tutti e non escludere nessuno, soprattutto chi non la pensa come noi e magari ci osteggia. Chissà se fra questi rientrano anche i fedeli cattolici più tradizionali e magari – non sia mai! – gli “assurdi” frequentatori della Messa tridentina, sulla quale Bergoglio sta per calare la scure? La risposta è quasi certa ed è positiva. Perché quelli sono compagni – pardon fratelli – che sbagliano e devono – loro sì – convertirsi. Non a Dio in cui credono, ma a quel cantiere in costruzione che oggi è la Chiesa in uscita, impegnata in percorsi di umanizzazione. Dove però, come osservava il cardinale Joseph Ratzinger nel lontano 1985, sembra essersi quasi del tutto smarrito il progetto originale per cui se i festival e le liturgie ridotte a party hanno successo, le chiese continuano a svuotarsi. Non sarà per caso, oltre che di linguaggio e di serate a cena, un problema teologico, cioè di fede?

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