GIUSTIZIA & INFORMAZIONE

Un corvo svolazza sulla Procura
ma il problema (non) è lo Spiffero 

Il procuratore capo Loreto bacchetta il nostro giornale per il "clamore" sul caso delle false mail. Ma dopo aver accertato che si è trattato di una manovra volta a screditare la magistratura e la polizia giudiziaria qualcuno si sta occupando del mestatore?

Abbiamo grande stima di Anna Maria Loreto. La conosciamo come magistrato preparato e integerrimo, dotato di non comuni qualità investigative, grazie alle quali in Piemonte l’azione di contrasto e repressione della criminalità organizzata ha ottenuto apprezzabili risultati. Sappiamo, inoltre, essere persona equilibrata, seria e saggia. Per questo siamo rimasti sorpresi e, non lo nascondiamo, sconcertati leggendo la lettera, indirizzata ieri al personale della Procura, in cui ricostruisce la vicenda delle famigerate mail: uno scambio di messaggi – risultati falsi e “creati artatamente” – tra un ufficiale dei carabinieri, responsabile dell’aliquota dell’Arma a Palazzo di giustizia e braccio destro di un pm titolare di importanti indagini riguardanti politica locale e pubblica amministrazione, e una giornalista contenenti clamorose rivelazioni che poi la stessa avrebbe condiviso con una collega. Secondo la perizia disposta dalla stessa Loreto neppure lo scambio di mail è mai avvenuto, accertando che l’indirizzo di posta elettronica dal quale sarebbe partito il primo messaggio è scritto erroneamente, quindi non attribuibile al militare, e inoltre non riscontrando sul server dei carabinieri la presenza della email in questione.

Conclude la dottoressa Loreto: “È evidente come lo scopo di chi ha realizzato e diffuso questa falsa corrispondenza, cercando di farla apparire come realmente intercorsa, sia stato quello di screditare – oltre ai giornalisti coinvolti – l’operato, la professionalità e l’indipendenza dei Magistrati e della Sezione di Polizia Giudiziaria della Procura di Torino e di dare una falsa rappresentazione del Nostro Ufficio facendolo apparire, contrariamente al vero, caratterizzato da conflitti interni e da un clima di generale sfiducia, che ci sono del tutto estranei”.

Comprendiamo l’esigenza, nella sua veste di capo ufficio, di difendere la condotta, l’integrità e la dignità di colleghi, sottoposti e collaboratori. L’importante è che ciò avvenga non a scapito della realtà, prima ancora della verità. La dottoressa Loreto imputa il “clamore di questi ultimi giorni” al nostro articolo di sabato scorso che, a suo dire, avrebbe fornito una esposizione ingannevole se non addirittura mendace, “offrendo così l’immagine di una Procura, ed in particolare del Magistrato Gianfranco Colace e del Ten. Col. Isacchini, che si muove in modo scorretto e privo della benché minima professionalità”. Dove il procuratore abbia ravvisato nel nostro pezzo un simile intento è per noi un vero mistero. Non solo perché ciò è estraneo alla nostra cultura e professionalità, ma perché la nostra finalità era semmai opposta: quella di preservare l’azione della Procura da manovre tese a screditarla. Non siamo certo stati noi a parlare per primi di faide tra magistrati, di agenti di Pg che indagano sui colleghi, di “cricche”, di misteriosi furti, di tensioni sull’assegnazione di fascicoli. Se poi allarghiamo l’orizzonte ad altri piani e altri edifici sempre all’interno di corso Vittorio l’aneddotica si fa ancor più ricca (dal caso Mottarone alla loggia Ungheria).

E veniamo dunque a ristabilire la verità dei fatti, a partire dalle ragioni che ci hanno spinto a occuparci per primi di questa vicenda che puzza di torbido lontano un miglio. Da settimane, grosso modo dalla vigilia delle primarie del Pd, in ambienti politici e giudiziari circolavano voci circa una imminente inchiesta della Procura che avrebbe terremotato la politica locale, in particolare nel mirino sarebbero finiti alcuni alti papaveri del Pd. Indiscrezioni riferivano di fughe di notizie, di informazioni riservate messe a conoscenza di alcune redazioni di giornali, di provvedimenti assunti per cautelare un paio di soggetti coinvolti in quella che, man mano che il pettegolezzo cresceva, si annunciava come uno scandalo dirompente. Chiacchiere, vero. Fino a quando hanno iniziato a comparire fotocopie estratte da un non meglio identificato documento contenenti affermazioni a dir poco clamorose: la famosa “bomba” pronta a essere sganciata sul Pd. Ovviamente, per noi ma crediamo non solo per noi, la cosa era di notevole interesse. Anzi: era una notizia. Certo da verificare. Come abbiamo fatto attivando le nostre fonti, consapevoli che soprattutto in certi ambiti il terreno è sdrucciolevole e, più che altrove, il rischio di essere usati è massimo. Per questo abbiamo temporeggiato a lungo, finché non siamo venuti in possesso dell’atto dal quale tutto ha avuto origine: la deposizione del giudice Andrea Padalino al Consiglio Giudiziario di Torino, davanti al quale l’ex pm aveva confermato di aver consegnato al presidente del Tribunale di Vercelli la missiva contente il carteggio elettronico. Possiamo dirlo? Fatale ci fu proprio l’estremo scrupolo con il quale ci siamo mossi: volevamo avere in mano le carte e, dopo aver verificato l’apertura di un’inchiesta, abbiamo scritto.

Sabato scorso, appena appreso che quindici giorni prima il gip aveva nel frattempo archiviato l’indagine (e informato un paio di giorni antecedenti le giornaliste coinvolte loro malgrado, per stessa ammissione di una di loro), abbiamo prontamente rettificato il contenuto (e il titolo) dell’articolo, facendo pubblica ammenda dell’inciampo. Potevamo non sapere che l’indagine si era chiusa e che l’esito delle perizie aveva escluso l’autenticità delle mail? Sì, fa male ammetterlo ma è così. Forse paghiamo lo scotto di non avere un giornalista mandato a bivaccare nei corridoi del sesto piano di corso Vittorio (e per quel poco di tempo che l’abbiamo avuto Dio ce ne scampi). Forse non possiamo contare sui canali giusti. O, forse, pochi o nessuno aveva interesse a dare clamore alla cosa, quel “clamore” che oggi Loreto ci rimprovera.

Tra le tante “stranezze” di questa vicenda è come un’indagine che si è protratta per mesi su una questione così scottante, che vedeva coinvolti magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria e giornalisti, abbia goduto del massimo riserbo. Nulla è filtrato fino a quando, come abbiamo raccontato, per iniziativa di mani anonime (quelle del “corvo”?) stralci di documenti hanno preso a circolare in città. Strano davvero che uno dei pochi casi nella cronaca giudiziaria degli ultimi tempi in cui sono state protette le fasi istruttorie di un’indagine abbiano riguardato due giornaliste. Sembra un paradosso. Non una riga. Nemmeno dopo l’archiviazione, neppure dopo l’avvenuta comunicazione alle interessate del deposito dell’atto. Fino a sabato, finché lo Spiffero non ha squadernato la faccenda, riportando fedelmente il concatenarsi degli eventi. Senza altra finalità che quella di raccontare una vicenda che nel dipanarsi offriva nuovi elementi di interesse. Non siamo al soldo di nessun padrone occulto, non agiamo nel favore delle tenebre per favorire interessi torbidi, non siamo la mano armata di chicchesia. In politica come nella magistratura.

Un’ultima annotazione. Che la questione non fosse proprio una quisquiglia lo conferma direttamente la stessa magistratura che nell’aprire un’indagine contro ignoti ha evidentemente annoverato tra le possibilità quella che quanto contenuto in quella corrispondenza potesse avere fondamento di verità. E giustamente solo dopo accertamenti, di sicuro svolti in modo scrupoloso (forse il capo di reato perseguito non è stato il più azzeccato, ma non stiamo a sottilizzare), ha potuto escludere – per fortuna di tutti – il peggio. Ora resta però solo un piccolo, ultimo problemino. Qualcuno si è messo all’opera per cercare di dare la caccia al grande mestatore, all’avvelenatore di pozzi, a colui che con i suoi gesti voleva infangare un pm, un ufficiale dei carabinieri e l’intera Procura? Non vorremmo che mentre il corvo svolazza liberamente sul Palagiustizia il problema diventi quello che scrive lo Spiffero.