La guerra del pane

L’esistenza offre continuamente lezioni di vita, permettendo a ogni individuo di arricchire il proprio bagaglio di esperienza sino a costruire la via che conduce alla saggezza. Quando una comunità fa tesoro delle vicende che appartengono al passato, anche più recente, automaticamente acquisisce gli strumenti utili per valutare il futuro e compiere, se lo vuole, scelte favorevoli al benessere sociale.

La non conoscenza, al contrario, rende ogni cosa inedita e porta a ritenere scontati gli effetti positivi delle scelte attuate con eccesso di fiducia in se stessi; non lascia spazio alla sperimentazione, che solitamente ha radici in una terra nutrita da errori e successi accumulatisi nel tempo. Ad esempio si è parlato molto di “Democrazia diretta” o della sua versione ridotta, ossia “partecipativa”, negli anni del drammatico G8 di Genova (2001), ma improvvisamente questi termini sono scomparsi nel nulla e sono stati cancellati anche dal vocabolario della politica.

Di conseguenza gli amministratori pubblici sotto i quarant’anni non sanno che una moltitudine di istituzioni territoriali ha sperimentato il “Bilancio partecipato”, ponendo al vaglio dei cittadini le voci di spesa contenute in alcuni capitoli. Di colpo ogni innovazione è cessata, aprendo così la porta alle solite vecchie decisioni portate a compimento escludendo dal confronto gli elettori, e addirittura gli eletti.

Le recenti riforme del decentramento rimarcano la fine di qualsiasi utopia di partecipazione: inutile il lavoro delle commissioni aperte ai cittadini, considerati quali spettatori muti; e altrettanto inutili i consigli (ridotti a mere stanze per passacarte) poiché privati del potere di voto sulle delibere di giunta. Nel nome dell’efficienza, alibi ad uso dei manovratori che non vogliono essere disturbati, il potere esecutivo accentra tutto su di sé, cosicché la “Democrazia partecipativa” chiesta 20 anni fa a gran voce dai manifestanti genovesi si riduce oggi a uno slogan appartenente al passato e dimenticato da tutti.

In questo modo però si rischia di perdere anche il valore stesso della “Democrazia”, a cui l’epidemia causata dal Covid19 ha assestato un durissimo colpo, riducendo ogni diritto di espressione e i diritti politici al semplice infilare una scheda nell’urna: una sorta di scadente reality con televoto e vittoria del più telegenico tra i concorrenti.

Il percorso che ha condotto alla tutela costituzionale dei diritti è coperto di sangue. Purtroppo pochi ricordano la “Guerra del pane” scoppiata a Torino nell’agosto del 1917: un fatto cruento caduto nell’oblio, posto con cura nell’enorme angolo riservato agli eventi tragici rimossi. La Prima guerra mondiale infuocava l’Europa da oramai due anni e una feroce speculazione attuata da alcuni commercianti si abbatté sul grano che improvvisamente venne a mancare. Il prezzo del pane salì alle stelle impedendone l’acquisto a tanti cittadini. Alcune misure messe in atto dal comune, e dal Sindaco Usseglio, si rivelarono inefficaci nonché pasticciate a tal punto da alimentare ulteriore malcontento popolare. Infine il 22 agosto esplose la collera dei lavoratori, delle donne e dei proletari; barricate vennero erette sia nel quartiere di San Paolo che in Barriera di Milano. 

L’intervento dei Granatieri di Sardegna fu risolutivo, e a terra rimasero i corpi di 50 dimostranti (per Gramsci invece almeno 200). Si sparò senza pietà su persone che chiedevano a gran voce “Pane e Pace”. La stampa, ricorda il ricercatore/segugio d’archivio Angelo Toppino, all’epoca comprese appieno le ragioni dei dimostranti lottando anche contro una feroce censura, mentre gli organi istituzionali non proferirono parola su quanto avvenuto.

Lo stesso Consiglio comunale torinese dichiarò viva preoccupazione per quegli accadimenti e si scusò per non aver garantito pane a tutti, ma non disse nulla riguardo ai caduti e alle famiglie rimaste senza sostentamento. Un esempio di rimozione dei fatti molto efficace, a tal punto che oggi pochissimi torinesi sono a conoscenza di quella rivolta fallita perché, scrive La Stampa in quei giorni, nell’ex capitale sabauda non c’era nessun Lenin a organizzare il popolo.

Oggi raramente si ordina di sparare sulla folla: il consumismo è uno strumento ancor più sicuro per mettere a tacere disagio e malessere sociale. Creare “miti” da raggiungere, indurre l’imitazione dei vip e far sognare di poter partecipare al Grande Fratello sono strumenti eccezionali di controllo delle masse. “Avere” è la parola d’ordine grazie alla quale si travolgono i sistemi statali che ancora mettono al primo posto l’assistenza pubblica a scapito del business (vedi Cuba).

Una nuova grande schiavitù, in apparenza dorata, che rischia di diventare invincibile grazie alla scomparsa dei valori solidaristici tra chi è inconsapevolmente legato al volere dei grandi imperi finanziari: gli stessi imperi pronti a corrompere chiunque si opponga al loro volere.

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