GIUSTIZIA

Buco Finpiemonte, solo fotocopie i documenti che "accusano" Gatti

La Corte dei Conti ordina l'acquisizione degli originali, che nel fascicolo penale non ci sono. Dirimenti per accertare se la firma (disconosciuta dal manager) è autentica. Da verificare anche le mail, false per l'ex presidente alla sbarra per l'ammanco da 6 milioni

Sono passati quasi cinque anni dal giorno in cui lo Spiffero diede per primo la notizia degli ammanchi milionari in Finpiemonte e più di quattro da quel 16 aprile del 2018 quando, alle cinque del mattino (e dopo aver chiesto invano per settimane di essere ascoltato dai magistrati titolari dell’indagine) Fabrizio Gatti fino  pochi mesi prima presidente della finanziaria regionale, venne portato in carcere dove vi sarebbe rimasto per 44 giorni  con l’accusa di peculato: aver procurato un buco di sei milioni nelle casse della finanziaria regionale utilizzando il denaro per salvare una società immobiliare a lui riconducibile. 

Accusa respinta da Gatti fin dall’inizio e, ancora, un paio di settimane fa nel lungo interrogatorio in tribunale. Dopo quattro anni dall’arresto e due dalla prima udienza il processo, interrotto da lungo rinvio per la maternità di un magistrato, non è ancora finito. E si è ancora molto lontani dall’accertare cosa sia veramente successo. Non solo, adesso a sollevare pesanti interrogativi, ad alimentare legittimi dubbi sulla conduzione dell’inchiesta arriva una decisione, per molti aspetti (soprattutto per ciò che potrebbe preludere) clamorosa, da parte della Corte dei Conti. La Sezione giurisdizionale per il Piemonte dov’è incardinata la causa (propriamente, il giudizio di responsabilità) nei confronti di Gatti e dell’allora direttore di Finpiemonte Maria Cristina Perlo per un presunto danno di 12milioni e 268mila euro, ha chiesto alla Procura della stessa Corte di acquisire tutti gli originali dei documenti relativi alla movimentazione del denaro con la banca svizzera Vontobel dei quali Gatti disconosce l’autenticità della sua firma, sia in sede penale sia dinanzi alla magistratura contabile. Un passaggio cruciale la cui importanza la si comprende proprio nel ribadire da parte dell’ex presidente di Finpiemonte che quelle firme nei documenti non sono le sue. Importante, non di meno, la decisione del presidente della Sezione della Corte Cinthia Pinotti perché porta all’evidenza un fatto a dir poco singolare: tutti i documenti su cui si basa l’accusa nel processo penale sono “solo” delle fotocopie inviate dalla banca elvetica rispondendo alla richiesta degli originali da parte degli inquirenti che parrebbe si siano accontentati senza percorrere la via della rogatoria internazionale.

Strada, invece, indicata dalla presidente Pinotti che nell’ordinanza premette come “presupposto essenziale del corretto svolgimento del procedimento istruttorio autonomo di verificazione della scrittura privata sia l’acquisizione del documento in originale”. Il giudice contabile rimarca inoltre una fatto che incrocia in maniera pesante il processo penale e la stessa tesi difensiva di Gatti. Scrive Pinotti: “la Guardia di Finanza (…) ha riscontrato l’assenza nel fascicolo penale degli originali dei documenti oggetto di disconoscimento e l’esistenza di documenti in originale con sottoscrizione certa apposta dal Gatti presso la sede di Finpiemonte S.p.a”. Insomma, i documenti in cui l’ex presidente della finanziaria regionale non riconosce la sua firma e su cui poggia la tesi accusatoria sono fotocopie inviate dalla banca svizzera. Non solo. Delle mail che sono nel fascicolo dell’accusa penale e che Gatti sostiene di non aver mai inviato non è stato verificato l’indirizzo IP dal quale sono partite, che insieme all’acquisizione degli originali ha chiesto venga fatto la Corte dei Conti, fissando un termine di 90 giorni. Basteranno tre mesi per un complesso reperimento di documentazione all’estero? I dubbi a proposito sono molti.

Tornando alle mail, va ricordato come nel corso del processo per peculato uno dei cinque imputati, il faccendiere Pio Piccini ammettendo di aver "tradito un amico”, ovvero Gatti, ha spiegato che il trasferimento del denaro, tra il 2016 e il 2017, dalla banca Vontobel ad altre società sia avvenuto all’oscuro dell’allora presidente di Finpiemonte. Piccini ha inoltre spiegato che su proposta di altri due imputati creò un falso indirizzo email di Gatti e confezionò dei documenti per far sembrare che il trasferimento dei fondi fosse stato ordinato dal presidente di Finpiemonte. Ecco perché è fondamentale la verifica dell’indirizzo IP da cui quelle mail sono partite, così come chiesto dal giudice contabile, ma non dalla magistratura penale. Per l’accusa, in tribunale, Piccini cercherebbe di scagionare Gatti, che per i pm era a conoscenza e partecipe della distrazione del denaro. 

La tesi accusatoria è che Gatti (difeso dai legali Luigi Chiappero e Luigi Giuliano) abbia voluto far pervenire il denaro nella disponibilità di Piccini, con il quale aveva già avuto dei rapporti per le vicissitudini dell'immobiliare Gem, di cui era titolare. Tesi che traballerebbe o potrebbe addirittura crollare nel caso in cui si accertasse che l’indirizzo mail di Gatti era fasullo e che nei documenti prodotti dalla Procura, le fotocopie ricevute dalla banca svizzera, la firma dell’allora numero uno di FinPiemonte è stata falsificata. Resta, comunque, una domanda: perché quello che la Corte dei Conti chiede oggi, sottolineandone la necessità per arrivare a formulare un giudizio, non è stato chiesto dalla Procura della Repubblica, o comunque perché ai pm e ai giudici sono bastate, almeno fino ad oggi, semplici fotocopie e non hanno ritenuto necessario verificare l’origine delle mail?

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