SACRO & PROFANO

Repole insedia la prima linea. Con Francesco non si discute

Sul tavolo del nuovo Consiglio episcopale della diocesi Torino c'è il taglio delle parrocchie. Molta delusione tra i vescovi per il Concistoro: "Una Chiesa totalmente fissata sul Papa è una caricatura". L'ironia di Delpini e lo show di Staglianò - VIDEO

Dal 1° settembre presso la curia metropolitana di via Val della Torre si è insediato il nuovo consiglio episcopale diocesano di Torino. L’organismo è composto dal vicario generale don Alessandro Giraudo, dal vicario economo monsignor Mauro Rivella, dal  vicario per la cura delle diverse realtà territoriali, don Mario Aversano, incaricato di «cercare nuove e indispensabili collaborazioni e responsabilità dei preti sul territorio», da don Michele Roselli, vicario per la formazione, da padre Ugo Pozzoli, vicario per la vita consacrata e da don Daniele Giglioli, vicario generale di Susa, ai quali si aggiunge la cancelliera Concetta Caviglia. Il compito che attende il nuovo gruppo di comando, che affiancherà l’arcivescovo Roberto Repole, non è dei più semplici. Parecchi sono i dossier che già in questo periodo di pausa estiva sono stati istruiti. Primo fra tutti la già annunciata riduzione delle parrocchie. Adesso si dovrà mettere in moto il farraginoso ed enfatico processo per far digerire ai preti e ai fedeli un’operazione, conclusa la quale la diocesi subirà un dimagrimento sostanziale. Si dovrà poi celebrare il sinodo diocesano ove si scatenerà la logorrea clericale ma i cui esiti sembrano scontati, almeno a leggere le bozze del documento dell’assemblea diocesana, con le consuete richieste: abolizione del celibato sacerdotale, ordinazione diaconale e presbiterale delle donne, benedizione delle coppie omosessuali ecc.

In generale, i vescovi oggi non hanno più i poteri di un tempo. Prima di tutto c’è la curia e poi ci sono le cordate tra i preti in base alle loro affinità elettive, alla loro visione teologica e della pastorale, alle loro amicizie maturate durante il seminario, ai loro legami con il vescovo, alle loro aspettative di carriera, ai loro legami con Roma. Nessun presbiterio diocesano è immune da queste dinamiche, varia solo la loro “pesantezza”. Nel caso di Torino, la componente “boariniana” al comando sarà decisiva e si farà sentire, così come ha già fatto.

Circa i seminari, i vescovi oggi non hanno alcuna possibilità di controllo sui professori, specie se questi possono vantare amicizie nei Sacri Palazzi. Ordinano così sacerdoti sulla cui formazione non hanno alcun potere di intervento, per assurdo persino se gli insegnanti facessero aperta professione di eresia o di ateismo. Vi sono poi i confratelli riuniti nelle Conferenze episcopali regionali e nazionali che impediscono, di fatto, ai vescovi di esprimere il proprio pensiero, impongono scelte pastorali basate su di un consenso formale, per compiacenza o per evitare conflitti. Nel clima di sospetto e di incertezza che caratterizza questo pontificato, la prima cura dei vescovi è quella di non dire mai nulla su niente e i documenti collettivi sono così generici che parlano molto ma in realtà sono muti. Con un papa che discetta di misericordia ma poi non perdona – il caso Enzo Bianchi insegna – dice e poi smentisce, tollera molte cose ma poi su altre è intransigente, la cautela nel parlare, anche in privato, è massima e la cultura del sospetto permanente. Poiché la dottrina non è più chiara, l’ordine è dire solo cose che «non siano divisive» – cioè nulla – con l’obbligo di non opporsi mai frontalmente al mondo e ai suoi portavoce. Ne sanno qualcosa quei laici impegnati nella difesa della vita e contro l’aborto quando – ricevuti dopo molte insistenze a degli spaventati vescovi – è parso loro di parlare ai leader del doroteismo democristiano dei tempi andati o di entrare in un labirinto kafkiano in cui si viene rimpallati tra Erode e Pilato. O ci si adegua o si tace.

Chi ha partecipato al Concistoro pubblico nella basilica di San Pietro è rimasto negativamente colpito dalla disorganizzazione e dalla confusione che ha contraddistinto l’ingresso dei fedeli i quali, venuti da ogni parte del mondo, sono stati costretti a code lunghissime sotto il sole cocente e con nessuna indicazione. Sono forse i frutti della gestione del nuovo arciprete, il cardinale francescano, Mauro Gambetti, i cui disastri vengono raccontati quasi quotidianamente – senza mai essere smentiti – da Silere non possum. Sembra che il porporato abbia fatto assumere come dirigenti – retribuiti con stipendi cospicui – vari suoi amici pensionati. In compenso, il venerando capitolo vaticano, da sempre autonomo, è stato messo sotto tutela con l’obiettivo, nemmeno troppo taciuto, di mettere le mani sui suoi beni.

Tutto ciò è nulla rispetto al Concistoro a porte chiuse dove, secondo le previsioni, i 180 cardinali non hanno avuto modo di esprimersi tutti insieme, in dialogo, sulla riforma della curia romana essendo stati invitati a depositare interventi scritti che nessuno avrebbe letto. Si sono sentite alcune berrette rosse proferire commenti come: «È tutta una pagliacciata», «vogliono tapparci la bocca» e altre espressioni più colorite. Il papa poi non si è fatto vedere e nemmeno monsignor Marco Mellino. I corifei Paolo Lojudice e Óscar A. Rodríguez Maradiaga hanno avuto pure il fegato di dire che «è stato bello potersi conoscere». Anche gli osservatori progressisti più intelligenti si aspettavano che non fosse paralizzato quel dialogo franco e diretto che avvenne l’ultima volta nel Concistoro del febbraio 2014. Oltre ad eleggere il romano pontefice, i cardinali lo assistono «sia agendo collegialmente quando sono convocati insieme per  trattare le questioni di maggiore importanza, sia come singoli, cioè nei diversi uffici ricoperti prestandogli la loro opera nella cura soprattutto quotidiana della Chiesa universale» (canoni 349 e seguenti), inoltre al papa «prestano principalmente aiuto nei concistori» (canone 353) in più, secondo il canone 356, i cardinali «sono tenuti all’obbligo di collaborare assiduamente col romano pontefice».

Almeno tre porporati hanno però rotto il silenzio, manifestando con franchezza la propria convinzione e con quella parresia tanto cara a papa Francesco, quanto da lui nei fatti non praticata. Si tratta del novantatreenne cardinale tedesco Walter Brandmüller, eminente storico della Chiesa, già presidente del pontificio comitato di scienze storiche il quale, essendogli impedito di pronunciarsi, ha reso pubblico il suo intervento e che Sandro Magister, principe dei vaticanisti, ha ripreso. Il secondo, è il cardinale Raymond Leo Burke che ha svolto una riflessione sul rapporto tra l’ufficio petrino e il servizio della curia romana. Il terzo è stato Gerhard Müller, che in un denso intervento ha affermato, tra l’altro, che: «Non è un progresso dell’ecclesiologia ma una palese contraddizione con i suoi principi fondamentali, se tutta la giurisdizione è dedotta dal primato giurisdizionale del Papa. Anche la grande verbosità sulla sinodalità non può nascondere la regressione a una concezione teocratica del papato». Pertanto, «una Chiesa totalmente fissata sul Papa era ed è sempre una caricatura». Siamo certi – e lo diciamo senza ironia – che l’ecclesiologo Repole e con lui i teologi progressisti condivideranno sicuramente quanto affermato dall’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, licenziato improvvisamente nel 2017, ed è assai strano che quanti citano il Vaticano II a ogni piè sospinto, non abbiano nulla da dire in proposito. Brandmüller ha sostanzialmente detto che papa Francesco vuole chiudere la bocca a quel collegio che invece, quanto più gravi sono i problemi della Chiesa, tanto più sarebbe necessario consultare. Interessante che questi, pur ascritto al fronte conservatore, non risparmi nemmeno Benedetto XVI: «La sua rinuncia al papato, per motivi personali, la fece all’insaputa di quel collegio cardinalizio che lo aveva eletto».

Ridentem dicere verum. Sta facendo il giro del globo un video – assolutamente da non perdere – in cui, durante la Messa di ringraziamento per l’elevazione al cardinalato del vescovo di Como Oscar Cantoni, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini si esibisce, con inconsueto e graffiante sarcasmo e malcelata suavis clericorum malitia, sui motivi che avrebbero spinto il papa a preferire per la berretta rossa non lui ma il suo suffraganeo. Mentre gli altri vescovi lombardi se la ridono, le facce del cardinale Francesco Coccopalmerio e del neo-cardinale Cantoni assumono le sembianze delle maschere di cera. Al di là dello spassoso ma assai istruttivo siparietto, nelle parole del successore di Carlo Maria Martini c’è tutta la frustrazione per l’umiliazione inflitta dal papa alla diocesi ambrosiana. A questo proposito, anche il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, successore di San Pio X, di San Giovanni XXIII e del prossimo beato Giovanni Paolo I, è rimasto ancora una volta senza porpora in quanto deve la sua nomina al cardinale Mauro Piacenza assai inviso al papa. Per Torino, la porpora, negata a monsignor Cesare Nosiglia, troppo amico di Camillo Ruini, è ancora alle viste per il suo successore e poi è noto come il teologo della «Chiesa umile» non aspiri a questi onori.

Naturalmente, i bacchettoni della sinistra hanno preso di mira Delpini – peraltro da sempre bergogliano di ferro – accusandolo di aver attaccato il papa. È noto come alla domanda di un cardinale sul motivo per cui certe sedi non hanno più dignità cardinalizia, il Santo Padre avrebbe risposto che «non è la storia che nomina i cardinali, ma il papa». A chi un po’ conosce la storia della Chiesa, non è potuto non venire in mente il beato Pio IX (1792-1878) e cioè quanto di più lontano – a parole – vi possa essere da Bergoglio. Come racconta padre Giacomo Martina S.J. (1924-2012), insigne storico di papa Mastai, durante i dibattiti sull’infallibilità pontificia al Concilio Vaticano I, dove si formò una consistente resistenza alla definizione di tale dogma, Pio IX intervenne pesantemente dichiarando ad un allibito cardinale Filippo Maria Guidi che: «La Chiesa, la tradizione sono io!». Si potrebbe anche citare – per stare nell’ambiente – il marchese del Grillo: «Io sono io e voi...». Dove almeno però il grande Paolo Stoppa, nei panni di Pio VII, ai soldati francesi che venivano ad arrestarlo se non avesse ceduto all’arbitrio di Napoleone rispose, seduto in trono: «Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo».

Finalmente la Pop Theology si è insediata in Vaticano! In agosto, il papa ha nominato presidente della Pontificia Accademia di Teologia – una delle più antiche istituzioni teologiche romane – il vescovo di Noto monsignor Pasquale Staglianò conosciuto come cantante, ballerino, commentatore politico e critico musicale. Chi ha dimestichezza con gli studi teologici ricorda che quella carica fu ricoperta da teologi come Antonio Piolanti, Brunero Gherardini, Marcello Bordoni, Ignazio Sanna. In diocesi hanno tirato un sospiro di sollievo, infatti il vescovo showmen è conosciuto per la sua superbia e per i pasticci che ha combinato; adesso a Roma – nel posto giusto – potrà sbizzarrirsi con le sue stravaganze. Ci hanno riferito che fino all’avvento di Francesco, monsignor Staglianò, originario di Isola di Capo Rizzuto, fosse un teologo dei più ortodossi tanto da meritare la stima del cardinale Camillo Ruini che lo volle vescovo, poi con il nuovo papa divenne l’inventore della teologia pop. Ci si chiede cosa farà se dovesse esserci il dietrofront…

Tra le varie sue proposte, il sinodo tedesco ha chiesto un indulto rispetto al canone 1024 del codice di diritto canonico (“Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile”) al fine dichiarato di aprire il ministero diaconale alle donne, anticamera del sacerdozio femminile. La proposta del cardinale Walter Kasper di creare l’ufficio non sacramentale della «diaconessa parrocchiale» è stata respinta perché si ritiene che tale ufficio darebbe alle donne «solo l’accesso a un diaconato di seconda classe».

Su Vita Pastorale di agosto, Enzo Bianchi riflette sul cammino sinodale apprezzandone l’ampia risposta all’appello del papa. Con però due grandi assenti. I primi sono i giovani e i secondi i tradizionalisti che in alcune chiese come quelle di Francia, Germania e Stati Uniti contano molti fedeli al loro interno. L’ex priore di Bose vuole allora sperare «che nelle prossime fasi del processo sinodale, soprattutto i tradizionalisti non ideologici, in nome dell’unità della Chiesa, siano calorosamente invitati a dare il loro contributo con rispetto e senza diffidenze con i fratelli». Prima che una buona dose di realismo, l’invito di Enzo Bianchi manifesta quella sollecitudine che dovrebbe essere la prima cura dei vescovi e cioè l’unità del gregge loro affidato. Lo sapranno raccogliere i nostri pastori o continueranno in quell’ostilità ideologica e preconcetta all’origine di tante incomprensioni e irrigidimenti? Ma anche i fedeli tradizionalisti sapranno uscire dallo zelo amaro che spesso li affligge spingendoli, in alcuni casi, a rifiutare il Vaticano II o il Novus Ordo? Su ambedue i fronti, c’è da dubitarne. Per Enzo Bianchi «questa è un’ora in cui dobbiamo impegnarci più che mai a dire la verità, a non dissimulare i conflitti, a pesare le parole, ad accettare la diversità, la differenza con i fratelli di fede, consapevoli che la comunione dello Spirito santo è comunione plurale e che la sapienza di Dio si mostra sempre policroma».

Sul Venerdì di Repubblica, Filippo Di Giacomo, prete vaticanista non conformista, ha commentato il recente motu proprio che, nella sostanza, ridimensiona fortemente la giurisdizione della prelatura dell’Opus Dei la quale, peraltro, gode di ottima salute e non ha mai originato conflitti di sorta con gli ordinari diocesani. Allorché essa fu eretta da Giovanni Paolo II nel 1982 con la costituzione apostolica Ut sit, tale atto fu preceduto da una consultazione dell’episcopato mondiale che vide coinvolti almeno duemila vescovi e revisionata dai più prestigiosi canonisti. Adesso «nella Chiesa sinodale di papa Francesco, le consultazioni per il motu proprio non sono andate oltre il cortile di Santa Marta. In questi quarant’anni, libri e articoli scritti da gesuiti contro il papato hanno popolato le biblioteche: la campagna contro papa Benedetto, nel 2006, ebbe inizio con un libello anonimo intitolato Contro Ratzinger ad opera, si dice, di un gesuita attivo tra Civiltà Cattolica e Università Gregoriana. Dopo questa “carezza” bergogliana il prelato dell’Opus Fernando Ocariz è invece stato tassativo con i suoi: “Siamo figli della Chiesa, obbediamo al Papa e restiamo in silenzio”. Come spesso accade all’ombra del cupolone, anche per l’obbedienza c’è chi la predica e chi la pratica». In questo caso, «il discernimento», pur tanto caro a Francesco e al quale dedicherà le prossime catechesi del mercoledì, non è ammesso.

Nel decennale della morte del cardinale Carlo Maria Martini, non è passato inosservato quanto Andrea Riccardi ha raccontato e cioè come l’arcivescovo di Milano non avesse un buon giudizio sul suo confratello gesuita Jorge Mario Bergoglio e come nel conclave del 2005 spinse invece per far eleggere al Soglio Joseph Ratzinger. Sembra che anche il preposito generale della Compagnia, padre Peter Hans Kolvenbach (1928-2016), interpellato nel 1992 in ordine all’elevazione all’episcopato di Bergoglio, si fosse espresso negativamente.

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