SACRO & PROFANO

Alla ricerca della Chiesa perduta. E c'è chi invoca un Vaticano III

Dall'assemblea del clero torinese ai sinodi locali: crescono i segnali di inquietudine e preoccupazione. "Abbiamo abbandonato il gregge". I preti operai: una pagina di archeologia teologica. La nomina di don Giraudo ad ausiliare di Repole

Quod erat in votis, il papa ha accolto la proposta dell’arcivescovo Roberto Repole e ha nominato suo vescovo ausiliare, assegnandogli la sede titolare di Castra Severiana, antica diocesi della Mauritania Cesariense, quello che da subito è stato ed è il suo braccio destro, monsignor Alessandro Giraudo, che conserva anche – pare – l’incarico di vicario generale. Il suo nome era già comparso da mesi in varie terne preconizzato come vescovo in alcune diocesi, oggi egli diventa il numero due ed è certo che su di lui graverà gran parte della conduzione quotidiana delle due diocesi di Torino e di Susa. Molto sobrio ed essenziale nel tratto, considerato esperto e competente nel diritto canonico, nessuno lo ha mai visto indossare la talare e ci si chiede se lo farà almeno il giorno dell’ordinazione. Si completa così, con l’occupazione di un altro importante tassello, il processo di egemonia “boariniana” configurandosi S. Lorenzo come il vero centro motore e decisionale della diocesi. Con questa nomina sembrano sia sfumate le chance di monsignor Mauro Rivella, parroco di S. Rita e, da sempre, il più “episcopabile” del gruppo. Come maliziosamente ha detto un curiale, parafrasando don Giuseppe De Luca, con questo papa «Roma cresima ma non battezza più».

Il dibattito seguito all’incontro con il clero dell’arcivescovo Repole, tenutosi sabato scorso al Santo Volto, è sembrato più scontato del solito in quanto i “boariniani” non si sono pronunciati, forse in attesa che lo facessero i preti al di fuori del loro giro, cosa che non è avvenuta. Pertanto, si sono ascoltate le voci di coloro che, ancor prima di prendere la parola, si sa già cosa diranno, compreso il buon don Mario Foradini, testimone ammirevole, ancora sulla breccia della gloriosa stirpe dei preti torinesi, che ha invitato i confratelli a rispondere almeno ogni tanto al telefono. Don Paolo Marescotti, parroco di S. Benedetto, già in passato critico rispetto alle narrazioni correnti, ha posto il problema di una Chiesa che non riesce più a trasmettere la fede alle nuove generazioni e appare quindi destinata all’estinzione, altri hanno scoperto solo adesso che «circolano modelli di Chiesa molto diversi». I commenti a microfoni spenti paiono concentrarsi sui due punti che l’arcivescovo ha posto come preminenti: l’avvio di un confronto senza «geremiadi e senza utopie» alla ricerca dei «semi che germogliano e crescono». Ognuno allora ha cominciato ad interrogarsi sulla parola d’ordine dei germogli cercando di individuarli nella propria comunità. Come avrebbe detto il generale De Gaulle a chi gli proponeva la lotta agli imbecilli: «Vaste programme». Don Davide Pavanello, parroco di Gesù Buon Pastore, ha ironicamente comunicato ai presenti di non avere il pollice verde. Qualcuno, più spiccio, si è chiesto se per arrivare infine ad accorpare le parrocchie sia necessario mettere in moto una macchina così farraginosa e pesante.

Si è fatto sentire, con suo documento, anche “Il Chicco di senape”, il gruppo più strutturato e pensante del cattolicesimo progressista che da alcuni anni opera in diocesi e vanta al suo interno quello che resta della militanza cattolica «adulta», accompagnata da qualche docente della facoltà teologica. In esso si constata «il cedimento progressivo della partecipazione non solo alle iniziative ma alla stessa prospettiva inizialmente disegnata da Chicco di senape e il declino di una generazione, cresciuta tra gli anni Sessanta e Settanta, segnata dalla recezione del Concilio Vaticano II e dall’impegno associativo». Emerge così la frustrazione di una generazione per cui «sollecitare la partecipazione ma poi non accogliere quanto è stato proposto o suggerito è qualcosa di documentabile nella storia della nostra chiesa, da Evangelizzazione e promozione umana (1979) in poi». Il rimedio, come sempre, sarebbe allora la sinodalità come processo da attuare a tutti i livelli.

La preghiera di introduzione all’incontro del  Santo Volto – una rielaborazione dell’ora IX – ha mescolato sapientemente e in perfetto stile Anni Novanta le parole dell’ex priore di Bose Luciano Manicardi con le collette salmiche, un inno riformato poeticamente tradotto e un canto francese pasquale, creando così una collazione di objets trouvés tra il liturgico e il dinamico sapienziale che certo non sarebbe dispiaciuto a quel liturgista di provincia che, quando si trattò dell’acquisto di un organo positivo da collocare in duomo, vi preferì uno elettronico dicendo che in una città operaia come Torino, sarebbe stato scandaloso un simile acquisto. Naturalmente il suo autore è don Paolo Tomatis il quale, con onestà intellettuale, scrive che Traditionis Custodes impone di «scoraggiare» la Messa antica. Come se prima – quando S. Giovanni Paolo II con Ecclesia Dei adflicta e poi Benedetto XVI con Summorum Pontificum invitavano alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedevano la Messa antica – si fosse invece incoraggiata.

La diocesi di Amsterdam ha annunciato che nei prossimi cinque anni 99 delle 164 chiese cattoliche attualmente in funzione saranno chiuse. Delle 65 rimaste, 37 potrebbero continuare ad essere aperte per cinque o dieci anni, dopodiché solo 28 sarebbero considerate «vitali». Lo storico del futuro non potrà non sorprendersi del fatto che, mentre le chiese si svuotavano e si vendevano, i preti del tempo erano intenti a «scoraggiare» la Messa.

Si terrà a Settimo Torinese la settimana prossima la presentazione del libro Preti in fabbrica, operai nella Chiesa. La copertina del volume raffigura una folla con gigantesche mani alzate, chiavi inglesi e martelli intenta a guardare un sole a forma di Ostia Magna davanti alla quale svetta, sovrastando gli utensili, una grande croce. Non è dato sapere se quella folla stia cantando T’adoriam Ostia Divina o Bandiera Rossa. L’iniziativa, alla quale parteciperà il vescovo di Asti, monsignor Marco Prastaro, si propone come una perfetta lezione di «archeologia ecclesiastico-sociale» che – già nel titolo – denuncia l’ideologica confusione post-conciliare che da oltre 60 anni attanaglia l’ostinata nostalgia di questi autentici “indietristi”. Anni orsono, esattamente nel 2000, fu presentato in ambito universitario, il pregevole volume di Marta Margotti Preti operai. La Mission de Paris dal 1943 al 1954. Bruno Manghi, sociologo, saggista, già sindacalista della Cisl, che era fra i relatori, stupì l’uditorio definendo l’esperienza dei preti operai come un episodio della lunga fascinazione degli intellettuali europei per il marxismo. Dalla generosa volontà di evangelizzare la classe operaia condividendone la vita, si era infatti giunti a fare proprie l’impostazione culturale e l’ideologia marxista. Ma forse il più titolato ad essere interpellato poteva essere Mario Tronti, il padre e il teorico dell’operaismo italiano che, recentemente, ha osservato come non solo quella classe operaia – l’operaio massa – sia scomparsa da tempo ma che se si volesse riconoscerne gli eredi bisognerebbe andarli a cercare non nel capitalismo industriale – anch’esso in crisi – ma nel lavoro frantumato, nel popolo delle partite Iva che ha una sua forma di dipendenza e di sfruttamento, quella da sé stessi. Forse, la pastorale del lavoro, oltre che celebrare il passato, dovrebbe aggiornare i suoi paradigmi interpretativi.

Molto interessanti sono i risultati delle consultazioni che stanno emergendo in vista del sinodo della Chiesa universale. Emblematico è il documento uscito dalla parrocchia di Borgaro, che mostra ancora una volta, qualora ve ne fosse bisogno, come vi sia una profonda spaccatura tra chi vive la comunità e chi, dall’alto di qualche cattedra o di qualche rivista specializzata, pretende di suggerire, guidare, interpretare. La figura del sacerdote viene descritta impietosamente e, sotto diversi aspetti, realisticamente («a volte troppo formali, rigidi», «pochi», «di corsa»), così come la Chiesa italiana e non solo («non ha seguito il gregge», «troppo legata al potere economico», «non è coerente con il Vangelo», «c’è ancora troppo maschilismo» fino ad arrivare all’abolizione del Concordato; la morale sessuale viene vista come «pesante e difficile», alcuni temi «sono visti come dei tabù»; la Messa è considerata «troppo formale, troppo ripetitiva», il linguaggio della liturgia ormai non è più compreso dalla gente» e via dicendo.

Dall’altra parte però, giungono dei richiami a «spiegare di più l’importanza della confessione e dare più possibilità di riceverla», oppure a «insegnare di più alla gente come è possibile ottenere indulgenze per vivi e defunti», nonché «ricominciare a mettere a disposizione i foglietti con le letture e le parole del rito». Quest’ultima richiesta, nella sua semplicità, genuinamente funzionalista, seppellisce in poche parole cinquant’anni di propaganda liturgica, dimostrando che i fedeli del 2022 non hanno poi problemi diversi rispetto a quelli del 1962, con l’aggravante che la Messa oggi è in volgare ed è molto più semplice, al netto della sovrabbondanza accademica delle letture domenicali. Emerge, nel microcosmo di Borgaro, un elemento visibile da anni nella Chiesa universale: la presenza di anime diverse e polarizzazioni, accomunate però da una premessa di fondo condivisa da entrambe le parti: le cose non possono più andare avanti come adesso. Questa premessa dimostra il fallimento di cinquant’anni di retorica – sia essa progressista o conservatrice – e non dovrebbe essere sottovalutata in vista del futuro sinodo dove non dovrebbero avere   spazio le mistificazioni o non venga pilotato dal centro come avvenne per quello sulla famiglia.

I cattolici di sinistra – soprattutto gli intellettuali – sono rimasti letteralmente basiti dall’elezione di Lorenzo Fontana a presidente della Camera dei deputati e ciò deriva dal fatto che tale elezione ha rivelato l’esistenza di filoni culturali non allineati e non graditi a quei cattolici «adulti» che li consideravano estinti, superati dalla ideologia postconciliarista, mentre invece sembra che siano questi ultimi ad essere in via di estinzione. Per fare un esempio, la reazione del teologo-liturgista Andrea Grillo, è stata furibonda e ha promesso di mettere sotto «osservazione politica, ma anche teologica» la terza carica dello Stato: da notare che i progressisti usano per lo Stato la maiuscola e per la Chiesa, ovviamente, la minuscola. Per non parlare di don Duilio Albarello il quale, chiedendosi che fine abbiano fatto i cattolici democratici, afferma che «dal punto di vista valoriale (?) la Elly Schlein è più cattolica di Lorenzo Fontana». Al che, un suo interlocutore si è domandato – con teologico buonsenso – come mai se con chi non è cristiano cerchiamo di trovare qualche punto in comune perché mai di fronte a un cattolico come Fontana, dobbiamo invece cercare ciò che ci divide?  Forse perché i cattolici democratici hanno transitato il popolo cattolico verso le culture secolarizzate, culture che affidano alla sola coscienza il personale rapporto tra la fede e la politica dove però per questo non servono i cattolici ma sono sufficienti i protestanti. Ex fructibus eorum cognoscetis eos.

Il papa ha allungato di un anno i tempi del sinodo, prevedendo una ulteriore sessione nel 2024 forse, dicono, scontento di questa prima fase di ascolto che non avrebbe dato i frutti sperati. Intanto si torna a parlare di Vaticano III. Lo ha fatto Enzo Bianchi auspicando che si possa celebrare a Gerusalemme e possa trattare i temi di una revisione dell’etica sessuale tradizionale e della posizione della donna nella Chiesa. L’idea di fondo è sempre quella che non si possa evangelizzare se non modificando le strutture e adattandosi al mondo.

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