SACRO & PROFANO

Il mesto Rosario in tv di Repole. Svolta "botanica" della Chiesa

Cercasi preti col pollice verde per far crescere i "germogli". L'orto "boariniano" della diocesi di Torino. Il vescovo rosso Bettazzi contraddice papa Francesco sull'aborto. La crisi del cattolicesimo vista da Lussemburgo. Il ruolo di Giovanni XXIII nella crisi di Cuba

Giovedì scorso l’arcivescovo Roberto Repole ha guidato la recita del Rosario alla Consolata e l’evento è stato trasmesso in differita su TV 2000. Le immagini si commentano da sole e sono desolanti. Al di là dell’ammirevole fede delle poche pie donne e della bravura del coro, ci si chiede come venga gestita la comunicazione in diocesi dove un avvenimento televisivo mandato in onda su una rete nazionale ottenga tali risultati. Ironizzare sarebbe ingiusto e troppo facile.

Ancora sui germogli. La reazione alle indicazioni dell’arcivescovo circa «l’ascolto dei germogli» è stata perlomeno fredda. Venendo da un anno di “consultazione sinodale” dagli esiti più che sconfortanti, nessuno ha mostrato entusiasmo per la consultazione botanica, pur argomentata dall’arcivescovo. Tuttavia, alcune domande – pur se non esplicitate – sono sorte spontanee da parte di un gruppo di preti. Ci si rende forse conto che andare a caccia di “germogli”, significa ammettere che c’è stata una desertificazione? Si ha il coraggio dell’autocritica di tanti errori pastorali del passato che hanno trasformato la «primavera della Chiesa» in un deserto? Si ha la consapevolezza che alcuni atteggiamenti violentemente secolarizzanti sono stati come un diserbante che ha soffocato ogni germoglio impedendogli di crescere? Chi, di fronte alla più numerosa ordinazione degli ultimi anni, ha affermato – per mere ragioni ideologiche e di “costume” – che si è trattato di un errore da non più ripetere, può davvero essere in grado di riconoscere i germogli o vede soltanto quelli funzionali all’orto “boariniano”? L’attuale ceto dirigente della diocesi è in grado di valorizzare – e fino adesso non sembra – tutto e tutti e non solo una parte? Ciò che appare sicuro è ormai che – diversamente dal passato – nessun gruppo potrà reggere da solo la diocesi.

Importante e lunga intervista all’Osservatore Romano del cardinale gesuita Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo, presidente delle Conferenze delle Comunità europea (Comece) e relatore generale al prossimo sinodo. Alle domande il porporato – considerato il più accreditato e qualificato candidato dei progressisti al prossimo conclave – risponde, con tipico metodo gesuitico, con altre domande. In essa vi si ripete la parola d’ordine della «Chiesa che non discrimina» ove non è più necessario convertirsi, il peccato originale scomparso, tutto ciò che esiste è buono. La Chiesa non offre la fraternità nella verità ma nel semplice esserci, annunciare il Vangelo vuol dire non convertirsi a Cristo ma impegnarsi «per la salvaguardia della pace e del creato».

Alla domanda su come immagina la Chiesa in Europa tra 20 anni, Sua Eminenza ha risposto che essa sarà composta prevalentemente da migranti poiché «i ricchi autoctoni sono i primi ad abbandonare la scialuppa, perché il Vangelo stride con i loro interessi». Su questo scenario – una Chiesa dei poveri e per i poveri – è lecito avere dei dubbi. Ad abbandonare la Chiesa è oggi soprattutto il popolo – indigeno o meno – mentre vi dimora comodamente il ceto medio e superiore della nuova borghesia del terziario con la sua ideologia radicale di stampo individualistico alla quale la Chiesa sembra sempre di più accomodarsi. Come nel piccolo Granducato – capofila nell’Unione Europea dei diritti di ogni genere e dove la Chiesa è all’avanguardia su ogni fronte – che risulta essere anche il paradiso dell’elusione fiscale dove sono registrate 55 mila società offshore, costituite solo per detenere quote di altre società. Un’inchiesta di Le Monde aveva rivelato come in Lussemburgo pagano le tasse (poche) tramite holding grandi aziende: Amazon, Pfizer, Yves Rocher, LVMH e Chanel, ma anche le italiane Luxottica e Ferrero. È come se in queste caselle postali fossero nascosti – e molto bene – interi pezzi degli altri partner europei. Per adesso – ma forse ci è sfuggita – non si hanno notizie di una presa di posizione del cardinale Hollerich sul tema.

Alla soglia dei cento anni, l’«immortale» monsignor Luigi Bettazzi continua a épater le bourgeois partecipando a dibattiti e rilasciando interviste a raffica e dispensando le sue massime agli agiati pensionati olivettiani che vanno in visibilio alle impareggiabili storielle del progressismo d’antan. In un ennesimo incontro ad Ivrea ha detto che l’aborto è sì un peccato ma non si può dire che si possa configurare come un omicidio in quanto «l’ovulo fecondato può essere paragonato ad una radice ma non ancora un albero; quindi si può considerare un uomo solo al dal quinto-sesto mese di gravidanza quando, anche se dovesse mancare la madre, il bambino può continuare autonomamente a vivere». Tagliare le radici – sono solo un grumo di cellule – quindi deve essere lecito. In questo caso a contraddirlo però è lo stesso papa Francesco che in un discorso pronunciato il 14 ottobre 2021 ai partecipanti al congresso della Società italiana di Farmacia Ospedaliera ha affermato: «In particolare, sull’aborto ho avuto occasione di tornare anche recentemente. Sapete che su questo sono molto chiaro: si tratta di un omicidio e non è lecito diventarne complici».

Inoltre, secondo il “vescovo rosso” e secondo un mantra corrente, durante la crisi di Cuba del 1962 a propiziare la pace sarebbe stato l’intervento di papa Giovanni XXIII che permise a Kennedy e a Kruscev di «salvare la faccia». Proprio in questi giorni il decano dei vaticanisti, Sandro Magister, sul suo diffusissimo e autorevolissimo blog internazionale, ha messo in luce come negli archivi sovietici e americani non si faccia mai cenno all’appello alla pace del papa. Anche nel volume A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House a firma di Arthur M. Schlesinger Jr che fu assistente speciale in politica internazionale del presidente americano e il più informato testimone sulla crisi di Cuba, il nome di Giovanni XXIII non compare mai. Anzi, i primi segni di una disponibilità del leader sovietico a una soluzione pacifica non includevano alcun riferimento al Vaticano ma furono individuati dalla Casa Bianca – testualmente – nell’«asserita volontà sovietica di rispondere all’appello del filosofo Bertrand Russel», quest’ultimo noto per il suo pacifismo oltre che per le sue posizioni razionaliste, antiteiste e neopositiviste. L’intervento del “papa buono” ebbe invece un altro effetto. Attraverso la mediazione del domenicano belga, legato ai servizi segreti americani, padre Félix Morlion, Kruscev dispose la liberazione del metropolita della Chiesa greco-cattolica ucraina Josyp Slipyj, detenuto dal 1945 in un carcere segreto sovietico. Ma di questo monsignor Bettazzi non ne ha fatto cenno. Quando si tratta di comunismo l’indulgenza se non plenaria è sempre almeno parziale. Da tenere conto che per l’emerito di Ivrea la guerra in corso non è fra l’Ucraina e la Russia ma fra «l’America e Putin» e «tutti e due vogliono salvare la faccia». A questo punto però «è inutile continuare a fare degli interventi, salvo un miracolo dall’alto» e questo sì – verrebbe da dire – è un parlare da vescovo.

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