SACRO & PROFANO

Tra preti trampolieri e drag sister Brambilla regola la Messa antica

Nel teatro parrocchiale di Vinovo uno spettacolo en travesti lascia interdetti i fedeli. La singolare omelia su Zaccheo. A Torino corso di formazione per operatori liturgici. L'arcivescovo di Novara "magnanimo" con le celebrazioni secondo il Vetus Ordo

Anche in campo ecclesiale Torino si conferma come un laboratorio di sperimentazioni in vista dell’agognata chiesa-arcobaleno. Nel teatro parrocchiale di Vinovo andrà in scena lo spettacolo Sister Tac che, parodiando il film di successo del 1992 Sister Act. Una svitata in abito da suora, ha come protagonista una drag queen in abiti monacali. La regia è di un insegnante di religione ed ex seminarista ai tempi in cui lo era anche l’arcivescovo Roberto Repole. Interpellato in proposito, il parroco don Enrico Perucca è parso stupito e si è scusato per non aver vigilato. Non abbiamo visto lo spettacolo ma non ci vuole molta fantasia per immaginarne la trama: le rigide e ottuse religiose si umanizzeranno quando in convento arriverà la drag queen che dirigerà il coro finale davanti a papa Francesco. Déjà vu.

Tra i vari scempi a cui è sottoposta la liturgia questa trovata mancava. Nella parrocchia di S. Maria in Porto a Ravenna il sacerdote celebrante, per rendere più attrattiva l’omelia della Messa, ha pensato bene di salire sui trampoli al fine di meglio illustrare il racconto evangelico in cui Zaccheo, esoso e detestato esattore delle tasse e basso di statura, salì sul sicomoro per vedere Gesù. Sull’ennesima carnevalata liturgica si è innestato un interessante dibattito tra gli scandalizzati e chi invece si è chiesto che cosa avesse mai fatto di male il prete trampoliere. Per coloro che avanzano tale domanda la liturgia non è infatti un rituale ufficialmente sancito, ma una festa dell’assemblea, configurata in modo adatto con larga tolleranza. Non un culto da adempiere, ma la forma specifica in cui il ruolo della comunità si esalta, si celebra e si sperimenta. Tale liturgia – secondo le celebri parole di Benedetto XVI – si avvicina, per quanto riguarda la forma concreta e l’atteggiamento spirituale, al tipo del party. L’esito è scontato.

Sul settimanale diocesano di Torino La Voce e il Tempo il direttore dell’ufficio liturgico invita a partecipare a una giornata di formazione per operatori liturgici. L’immagine raffigura una compagine vocale, con un primo piano su alcune signore intente a cantare leggendo da una partitura, probabilmente uscita da una prestigiosa casa editrice, con tanto di codice a barre. Ciò potrebbe rendere inquieti i nostalgici delle pianole e dei bonghi ma possono stare tranquilli, a Torino si continuerà con il “libretto di Mao” – cioè il famoso libretto rosso – e chi non sa leggere la musica sarà comunque benvenuto per cantare, suonare e dirigere ma soprattutto “animare”. Il sempre colto e raffinato don Paolo Tomatis – cogliendo tutto il logorio di un verbo che risuona da sessant’anni nelle nostre chiese – spiega previamente che l’espressione “animazione liturgica” comporta dei rischi e fa pensare – diciamo noi – spesso al dilettantismo se non ai villaggi turistici, ma che è impossibile pensare a liturgie nelle quali «l’azione di Cristo non si intrecci con l’azione della Chiesa». Citando papa Francesco don Tomatis mostra di comprendere come la disponibilità volenterosa necessiti anche di una formazione adeguata laddove con il termine “adeguato” si debba intendere non solo la conoscenza di Desiderio Desideravi e la «generosa accoglienza» di Traditionis Custodes ma anche l’arte del canto, della musica, della dizione e di tutto ciò che serve per non trasformare la Messa – in qualunque lingua venga celebrata – in un geriatrico cabaret. Forse però coloro che più avrebbero bisogno di una formazione adeguata e – perché no? – anche di educazione, sono i parroci. A loro discolpa vi è il fatto che, oltre ai sempre più numerosi impegni pastorali, sono adesso gravati da «cammini sinodali» che si intrecciano e si sovrappongono e cioè riunioni che ricordano molto i dibattiti post-elettorali che si svolgono in questi giorni nei circoli del Pd.

Venerdì 4 novembre scorso il vescovo di Novara monsignor Franco Giulio Brambilla ha emanato un decreto sull’applicazione in diocesi del motu proprio Traditionis Custodes che ha positivamente stupito più di un seguace dell’antico rito per la magnanimità con la quale il presule ha affrontato la questione. Dove, dopo aver invitato tutti ad una celebrazione «degna» e «piena di splendore» e prima di invitare alla promozione del tesoro di una liturgia «bella», «orante», «comunitaria», illustra le disposizioni valide dalla prossima prima domenica di Avvento, che, sostanzialmente, si configurano come un tentativo di valorizzare i gruppi di Messa presenti sul vasto territorio diocesano, spostando il gruppo ossolano nello splendido santuario di Re, stabilendo la ripresa della celebrazione a Verbania nella chiesa di S. Giuseppe, e il trasferimento dei fedeli di Romagnano in una chiesa sussidiaria. Parimenti, si stabilisce la ripresa della S. Messa in italiano nella cappella di Vocogno.

Monsignor Brambilla ha concesso con larghezza la prosecuzione delle celebrazioni con il messale di Giovanni XXIII, qualificando le celebrazioni liturgiche in un modo che farà storcere il naso a quei liturgisti i quali – atterriti dalla recente partecipazione del presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi ai vespri in rito antico in un Pantheon strapieno di giovani – si attendevano provvedimenti durissimi e restrittivi, magari conditi da un profluvio di aggettivi. Il vero problema, in ogni caso, sarà la scelta dei celebranti, in quanto, nel decreto il vescovo Brambilla dichiara – grazie a Dio – che sarà concessa la facoltà di celebrare con il Messale del 1962 soltanto a quei presbiteri che riconoscono il rito di S. Paolo VI come valido, e si impegnano a vigilare affinché i fedeli non partecipino a esso «con uno spirito alternativo alla forma attuale della Messa romana».

Quest’ultima disposizione, interdice automaticamente alla celebrazione don Alberto Secci, il sacerdote che insieme a qualche altro confratello (tra cui un prete recentemente scomunicato dallo stesso Brambilla), smise già quindici anni fa di celebrare la Messa nella forma attuale inaugurando una prassi – quella cioè di celebrare esclusivamente nel rito antico – che, oltre ad essere in contrasto con quanto stabilito da Benedetto XVI, creò una serie di problemi teologici e pastorali di  difficile risoluzione. Come era possibile, si chiedevano in molti, che un sacerdote squalificasse il rito con il quale era stato ordinato? Come si poteva coniugare l’esclusivismo liturgico con la missione universale della Chiesa? Per non parlare della “tridentinizzazione” della parrocchia di Vocogno e dall’aver lo stesso don Alberto – ascetico e intransigente omileta – definito la Messa di S. Paolo VI, a parole e per iscritto, come una forma gravemente dimidiata, a partire da un Offertorio considerato come «abominio», ossia «scheletrita». Insomma, una situazione ecclesiale – quella novarese – piuttosto complessa a fronte della quale monsignor Brambilla ha detto parole chiare, intelligenti e rispettose, a differenza di un suo collega teologo laico Andrea Grillo, egemone negli uffici liturgici e nei seminari, il quale non ha trovato di meglio che dare dello scemo al cardinale Zuppi mettendo in guardia i vescovi dall’usare misericordia verso i fedeli attaccati al rito antico.

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