SACRO & PROFANO

Rito antico, il giusto mezzo di Brambilla. Nuovo direttore per la Facoltà Teologica

Il vescovo di Novara seda l'inattesa rivolta dei seguaci del Vetus Ordo. Don Pacini probabile successore di Repole al polo di via XX Settembre. Un parroco canavesano in corsa per la diocesi di Iglesias. La liturgia secondo monsignor Viola

Secondo alcune voci, l’arcivescovo Roberto Repole sarebbe in procinto di nominare don Andrea Pacini direttore della facoltà Teologica. Toscano dell’isola d’Elba, classe 1963, ordinato nel 2001, licenziato in teologia e in possesso di una laurea civile, parroco di S. Agostino, presidente della commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, consultore della commissione per i rapporti religiosi con i musulmani presso il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, responsabile dell’ufficio ecumenismo della Cep, il suo profilo è quello dello studioso e di un docente gradito ad una certa intellighenzia torinese, molto sensibile ai valori universalistici della fratellanza. Esperto di liturgia e di canto, il suo nome era accreditato – per le vaste competenze in campo ecumenico – come vescovo di Pinerolo. Non sono in pochi a chiedersi a questo punto – sempre che don Andrea diventi direttore – quali saranno le collocazioni che l’arcivescovo riserverà agli eminenti “boariniani” don Germano Galvagno e don Paolo Tomatis. Lo sapremo presto.

I vescovi piemontesi sono reduci da una settimana al mare per gli esercizi spirituali, predicati quest’anno da monsignor Gabriele Mana, vescovo emerito della diocesi di Biella – su cui prossimamente ci soffermeremo – il quale, pur dal suo ritiro di Moretta, continua a esserne l’eminenza grigia.

L’arcivescovo metropolita di Vercelli, monsignor Marco Arnolfo, pare abbia delegato il governo della primaziale del Piemonte in mani sicure. Si tratta, non del vicario generale di recente nomina, ma dell’economa diocesana e sua stretta consigliera, la ragioniera Michela Ferraris. Essa gode della piena e incondizionata fiducia di Sua Eccellenza, non soltanto nel tenere a posto i conti ma – dicono i preti – anche nell’indirizzarne le scelte. Recentemente, la virgo potens eusebiana, è stata la sagace organizzatrice dei festeggiamenti offerti all’arcivescovo Arnolfo in occasione del suo 70° compleanno. D’altro canto, la presenza femminile nel governo delle Chiesa non può essere solo teorizzata ma anche praticata.

Sempre a Vercelli, poco lontano dalla Curia arcivescovile, presso la basilica di S. Andrea, risiede un’altra virgo, questa assai più potens della precedente. Si tratta della veneranda consacrata – guai a chiamarla suora! – Anna Bissi, psicologa e psicoterapeuta, colei che ha preso il posto di don Sergio Boarino nella guida e nei percorsi di vita di importanti ecclesiastici torinesi e piemontesi, a cominciare dal vercellese cardinale Giuseppe Versaldi, già vescovo di Alessandria e attualmente prefetto del dicastero per l’educazione cattolica. Basti pensare che, appena nominato arcivescovo di Torino, monsignor Repole è venuto a celebrare la Messa in rendimento di grazie proprio a S. Andrea dove ha sede la Fraternità della Trasfigurazione, l’istituto fondato da Bissi che nel 2019 ha inviato alcune sue consacrate all’episcopio di Asti dove regna monsignor Marco Prastaro, suo figlio spirituale.

Pur a riposo, i nostri vescovi piemontesi continuano ad essere all’avanguardia su più fronti. Com’è noto, Sua Immortalità monsignor Luigi Bettazzi, naturalmente presente a Spotorno, ha recentemente proposto di sdoganare l’aborto al quinto mese in quanto, fino ad allora, non si è «persona umana» e perciò prima di questa data l’aborto – se compiuto con buone motivazioni – non può essere considerato un omicidio e quindi nemmeno un peccato. Più modestamente, l’emerito di Casale Monferrato, monsignor Alceste Catella, liturgista grillino – nel senso di Andrea Grillo – e acerrimo nemico del Vetus Ordo, pare abbia detto ad alcuni laici che è ora di semplificare le insegne episcopali abolendo finalmente l’anacronistica mitra – retaggio del sacerdozio giudaico – per conservare soltanto il bastone del pastorale. Magari da usare – ovviamente – sulla schiena di qualche «indietrista», cosa che, conoscendo l’iracondia dello “zio Chester” – com’è affettuosamente soprannominato il prelato biellese – non è affatto da escludere.

Non era presente al ritiro monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, e lo possiamo ben capire. In questi giorni egli ha dovuto affrontare una inaspettata rivolta dei fedeli che hanno intasato gli indirizzi di posta elettronica della Curia di mail, lettere e suppliche minacciando di mettere in atto azioni di protesta clamorose contro quello che – secondo noi a torto – è stato ritenuto un sopruso. Al fine di evitare che scoppiasse un caso nazionale, ha quindi nominato i quattro sacerdoti abilitati a celebrare secondo il Messale del 1962; tra i nomi di questi ultimi figurano anche don Alberto Secci e don Stefano Coggiola, segno evidente della ragionevolezza del vescovo Brambilla, il quale si è dimostrato più attento alle suppliche dei fedeli che alle perorazioni di Cristina Siccardi – più leziosa del solito – o ai deliri dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, sempre più sedevacantista. Resta il fatto che, per aver ottenuto l’autorizzazione, i due sacerdoti avranno dovuto prestare ossequio al Messale riformato, come da decreto vescovile, probabilmente scontentando chi, incuriosito dall’appello del sedevacantista don Francesco Ricossa, sperava che i due tagliassero i ponti con la “Chiesa conciliare”, magari facendosi ricresimare e riordinare. Monsignor Brambilla sembra aver scelto – in un modo o nell’altro – le juste milieu.

Il papa ha dunque commissariato – lo strumento di governo da lui preferito – anche la Caritas Internationalis: bullismo, dispetti e scontri interni pare ne siano le cause. Sembra poi che il suo presidente, il cardinale filippino Luis Antonio Tagle – considerato da molti fino a qualche tempo fa il candidato dei progressisti della scuola di Bologna di Alberto Melloni e di Enzo Bianchi – sia attualmente in caduta libera nell’entourage di S. Marta.

Sembra che nella terna dei preconizzati alla sede vescovile vacante di Iglesias vi sia il nominativo di don Luca Meinardi, parroco di S. Giorgio Canavese, paese natale del cardinale Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari, nonché vescovo emerito di Ivrea e di Iglesias la cui influenza sulle nomine episcopali è ben nota.

Il biellese monsignor Vittorio Viola, minore francescano, già vescovo di Tortona e attualmente segretario del Dicastero per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, ha tenuto il 3 novembre scorso presso la basilica di S. Giovanni in Laterano un incontro di riflessione, riservato ai sacerdoti e ai diaconi, sulla lettera apostolica di papa Francesco Desiderio desideravi sulla formazione liturgica. Molto buone alcune sue sottolineature: la Chiesa non è un teatro; il memoriale è la Presenza; la potenza che usciva dal Signore è nei Sacramenti che costituiscono il lembo del mantello toccato dall’emorroissa; la centralità dell’Incarnazione che dà senso al rito, la contrarietà al protagonismo del ministro e quindi l’invito a presiedere con umiltà, la riforma liturgica è inutile se non si fa formazione;  il rito è norma e non ci appartiene ed è indisponibile alla nostra sensibilità, come invece rendono evidenti le stravaganze e gli abusi – se non le profanazioni – che pullulano nelle chiese. I fedeli poi hanno il diritto di ricevere il rito – che non è alla mercè del celebrante- come ha stabilito la Chiesa.

Tuttavia, monsignor Viola presenta la Messa essenzialmente come Cena, quando si dovrebbe dire – con Benedetto XVI – che questa fonda il contenuto dogmatico dell’Eucaristia cristiana, ma non la forma liturgica. Infatti, quella Cena i cristiani non l’hanno più ripetuta, ma celebrano il sacramento memoriale dell’Eucaristia, culto radicalmente nuovo, con cui si rinnova il sacrificio incruento della morte del Signore, si proclama la sua resurrezione, si attende il banchetto di nozze che l’Agnello appresterà alla fine del mondo. In Occidente si commemora solo una volta l’anno, nella Messa in Coena Domini. Infatti, della Cena, gli Apostoli hanno conservato solo le parole di Gesù sul pane e quelle sul vino, proferite peraltro «dopo aver cenato», ma le hanno incastonate nella grande Preghiera, chiamata appunto eucaristica. Per questo «non celebriamo tutti», ma ci uniamo al sacerdote che agisce in persona Christi mediator Dei. In una parola, nell’intervento del neo-segretario del Culto Divino, manca la Croce, proprio come visibilmente si constata ormai nelle chiese: una suppellettile marginale – a lato o dietro l’altare, mai in relazione ad esso – sì che non lo si nota più. Insomma, per dirla con Hans Sedlmayr, si è perduto il centro.

Come lo Spiffero aveva previsto domenica scorsa, il papa ha nominato il nunzio apostolico nel Regno Unito l’arcivescovo monsignor Claudio Gugerotti nuovo prefetto del dicastero per le Chiese Orientali. Il prelato veronese – che il libello Via col vento in Vaticano del 199 appellava come «lo stambecco» – è stato il pupillo del potentissimo cardinale Achille Silvestrini (1923-2019), uno dei capifila della “mafia di S. Gallo”, la conventicola cardinalizia progressista che ha preparato, negli anni e per due conclavi successivi, l’elezione al Soglio di Jorge Mario Bergoglio. Il defunto Silvestrini avviò il giovane Gugerotti – con il chiaro intento di fargli fare carriera – presso la comunità religiosa orionina, dove fu ordinato sacerdote senza aver fatto un giorno di seminario. Infatti, la sua incardinazione a Verona avvenne dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1982 per entrare nel 1985 alla Congregazione per le Chiese Orientali diventandone poi, due anni dopo, sottosegretario e accogliendo in questa veste il suo mentore, il cardinale Silvestrini, nuovo prefetto. Adesso, dopo una brillante carriera diplomatica in varie nunziature, ne prenderà il posto.

Papa Francesco, incontrando i membri della Commissione teologica internazionale, ha di nuovo messo in guardia dall’«indietrismo», termine da lui stesso coniato e che usa spesso. Se è vero che il «si è sempre fatto così» non può essere il criterio per la pastorale dell’oggi, è anche vero che non può essere adottato come paradigma per decidere cosa non fare. Da tempo, rispetto al presunto “indietrismo”, pare più frequente riscontrare il sistematico abbandono di ciò che si è già/sempre fatto con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ad ogni modo, questa epidemia di “indietrismo” nella Chiesa non si vede proprio e comunque attribuirle tutti i mali che la affliggono, appare del tutto irreale. A meno che per “indietrismo”, nella liturgia, si intendano le Messe beat, le schitarrate, la dozzinalità di gesti e simboli, la banalità dei canti, la congestione delle parole e dei commenti inutili, la noia dei preti e la loro sciatteria. Allora sì, avrebbe proprio ragione il papa.

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