SACRO & PROFANO

La Chiesa in cerca di "germogli",
nelle parrocchie cresce il deserto

Parte nelle diocesi l'operazione di accorpamento. A Torino (e Vercelli) l'imprinting "boariniano" del cammino sinodale. Il cineforum anni Sessanta di monsignor Olivero. Neppure il cerchio magico di S. Marta riesce ad arginare la facondia di Francesco

Proseguono stentatamente e quasi per obbligo le convocazioni parrocchiali per individuare i «germogli di vita cristiana per la Chiesa di domani». Una traccia, indirizzata agli animatori delle assemblee, è stata elaborata dalla diocesi di Torino al fine di aiutare i partecipanti alla non facile ricerca. Da essa emerge chiara quale sia l’idea – o l’ideologia – che sottende all’operazione e soprattutto quali siano i parametri in base ai quali viene misurata la vitalità di una comunità parrocchiale. Salvo il primo, dove si indica quale germoglio una comunità «che celebra Dio con dignità e si mette in ascolto della sua Parola», i restanti punti trattano tutti della fraternità e della carità declinati nelle più svariate dimensioni. La vita sacramentale, per fare un esempio, non costituisce un elemento che possa essere apprezzato e pertanto non vi trova posto mentre lo sono «l’incrociare le realtà che vivono gli uomini e le donne di oggi con uno spirito missionario e universale». Insomma, lo stesso schema potrebbe essere tranquillamente adottato da una qualsiasi confessione riformata.

Ci chiediamo quali siano i paradigmi o i termini di paragone con i quali comprendere dove la liturgia sia curata, la fraternità vissuta e l’inclusione realizzata. Se i criteri sono quelli “ufficio-diocesani” rischieremo una liturgia privata di ogni sacralità, una fraternità fondata su criteri psico-affettivi anziché teologico-sacramentale, una inclusione incapace di evangelizzare e interessata a lasciare ognuno com’è, soprattutto nel peccato, che oggi si chiama «fragilità». Se si vogliono ridurre drasticamente le parrocchie e farne sopravvivere solo alcune, che siano ad immagine e somiglianza dell’enclave “boariniana”, la strategia è perfetta e la desertificazione assicurata; avremo finalmente una Chiesa umile, perché umiliata fino ad estinguersi. Se invece si volesse concentrare ogni impegno su quelli che sono i punti di forza della Chiesa oggi, basterebbe rivolgere più attenzione nel curare al meglio la «continuità» in quelle parrocchie o in quelle realtà che hanno espresso, negli anni, più vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata e non dimenticare – come invece avviene – quei preti il cui ministero si mostra più fecondo di vocazioni (normalmente, se ci sono vocazioni, c’è anche tutto il resto: giovani, famiglie, missione); confrontarsi con gli ordinati più giovani che sono i veri germogli della Grazia e i più vicini alle esigenze del nostro tempo, perché le portano dentro di sé, le hanno confrontate con Cristo al punto ad seguirLo. Sì, vocazioni, perché sono l’unico germoglio di cui davvero viva la Chiesa e senza le quali essa lentamente muore. Ma forse gli estensori della traccia, come sembra andare di moda negli ultimi sinodi di questo pontificato, sono parte di una strategia precisa, più simile alla tecnica della “rana bollita” – o finestra di Overton – per abituare progressivamente le parrocchie all’idea di un radicale ed ineluttabile cambiamento che prevede la chiusura o l’accorpamento della propria parrocchia, la perdita della Messa feriale o addirittura di quella domenicale.

Perché intanto maiora premunt e così sembra che saranno unite in una sola ben tre parrocchie torinesi, quella del Santo Volto di via Val della Torre, quella delle Stimmate di S. Francesco d’Assisi in via Ascoli e quella di S. Giuseppe Benedetto Cottolengo in corso Grosseto. Se così fosse, essa conterà quasi 60mila abitanti e a guidarla – secondo alcuni boatos – circola già il nome di uno stimato sacerdote di vasta esperienza pastorale. Se ciò fosse vero lo attenderebbe un compito non facile e meriterebbe perciò tutte le nostre preghiere. L’operazione accorpamento è iniziata.

Anche a Vercelli è uscita una nota dell’arcivescovo, monsignor Marco Arnolfo, sul cammino sinodale in cui invita a «riconoscere i germogli», sulla falsariga di Torino, e sembra che l’autrice sia una delle sorelle della Fraternità della Trasfigurazione fondata dalla virgo plus quam potens Anna Bissi. Intanto il ritiro per clero eusebiano a Bocca di Magra, voluto dallo stesso arcivescovo, ha visto la partecipazione di 12 preti e meno di una decina agli esercizi spirituali in Terra Santa. Anche i fedelissimi sembrano ultimamente latitare.

A Pinerolo invece monsignor Derio Olivero non cessa di svolgere la sua precipua funzione che è quella di épater le bourgeois e questo – gliene va dato atto – anche in epoca nichilista, quando nessuno si stupisce più di nulla, oltretutto se si rimette in auge quello che è stato un topos dei giovani impegnati nella provincia degli Anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, impareggiabilmente descritto ne Il lavoro culturale da Luciano Bianciardi. Stiamo parlando del cineforum, croce e delizia dei circoli intellettuali di ogni sinistra. La variante episcopale pinerolese – Al cinema con il Vescovo Derio – evita per fortuna il dibattito, quello che faceva finalmente ribellare il ragionier Fantozzi e i suoi colleghi dopo la centesima visione della Corazzata Potemkin, sostituto da una prolusione di Sua Eccellenza in veste di critico cinematografico. Se il modernismo ecclesiale ricorre a questi mezzi è veramente messo male. Era stato infatti il giovane don Luigi Giussani, ancora negli Anni Sessanta, ad accorgersi che la riconcorsa al mondo con i giovani non funzionava più e che l’enorme impiego di risorse materiali ed umane per costruire oratori e cinematografi non portava risultati in termini di evangelizzazione e animazione cristiana. Decise allora – non compreso nemmeno dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini poi papa Paolo VI – di ritornare alle anime uti singuli e di parlare loro semplicemente di Cristo.

Il vaticanista Aldo Maria Valli tiene una rubrica dove gli vengono segnalati vari abusi liturgici, in particolare quello di rifiutare ai fedeli la comunione sulla lingua. Sabato 21 gennaio a Torino nella basilica di Maria Ausiliatrice, alla Messa delle 9, il celebrante si è rifiutato di dare la Comunione sulla lingua ad un fedele e  gli ha perentoriamente intimato: «Solo sulle mani». Un altro fedele della parrocchia di Centallo, a pochi chilometri da Cuneo, si è trovata di fronte una “chiericona” – pardon, ministra straordinaria – che ha fatto altrettanto e che davanti alla protesta ha chiesto infine lumi all’illuminato parroco il quale, bontà sua, ha dovuto ammettere che la Comunione sulla mano è ammessa. In un Responsum della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, pubblicato su Notitiae dell’aprile 1999, alla domanda se un sacerdote o un ministro straordinario della Santa Comunione possa obbligare i comunicanti a ricevere la Comunione solo sulla mano, si risponde chiaramente che il diritto dei fedeli di riceverla sulla lingua rimane intatto. Pertanto, coloro che vogliono imporre ai comunicanti di ricevere la Santa Comunione solo sulla mano agiscono contro le norme, così come coloro che rifiutano ai fedeli il diritto a riceverla in mano. Poiché però non sono pochi fra i vescovi e i preti quelli che disconoscono – naturalmente quando fa loro comodo – ogni norma che, prima di papa Francesco, provenga da Roma, sovviene la Cei la quale, in seguito alla pandemia, ha stabilito che la distribuzione dell’Eucaristia, avvenga «preferibilmente» sulla mano e chi lo desidera può riceverla anche sulla lingua. Di questo aspetto – minimo ma per molti fedeli affatto secondario – non ne avrà sicuramente trattato una liturgista di gran nome, religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice e docente, recatasi in questi giorni ad Alba per parlare di Desiderium Desideravi ad un rado ed attempato gruppo di preti dai cui volti stanchi e semi assonnati traspariva il tedio per il ritorno del sempre uguale.

Tra gli appuntamenti organizzati per le primarie del Pd non poteva mancare per il lancio della candidatura di Stefano Bonaccini una puntata al Sermig che, pur non essendo una realtà diocesana, in parte – specie con le ultime ordinazioni “lampo” – lo è diventata. Un’ora prima di lanciare la propria candidatura alla segreteria, il governatore dell’Emilia-Romagna ha partecipato infatti sotto le volte dell’Arsenale della Pace al convegno promosso da Stefano Lepri, “Un Pd + Popolare” con Graziano Delrio e Simona Malpezzi. Da parte dell’autorità ecclesiastica si è sempre stati attenti nel raccomandare di evitare ogni commistione tra fede e impegno di parte o di partito, sia a destra, sia (molto meno) a manca. Si dovrebbe invece dire chiaramente che il problema non è il rapporto con la politica – secondo Pio XI «forma suprema di carità» – ma con quale schieramento politico.

Settimana News ha pubblicato un’intervista a suor Monika Amlinger, naturalmente teologa e referente pastorale nonché, ovviamente, “eremita”, in cui racconta di «volere qualcosa di più» e di «avere sentito» la chiamata di Dio ad essere prete – molti già la chiamano «signor parroco» – informandoci che «150 donne e singole persone non binarie (si dice non binaria la persona che non si identifica completamente nel genere maschile o femminile, ndr) della Germania, della Svizzera e dell’Austria hanno maturato anch’essi la «vocazione» e «piacerebbe loro essere diaconesse o preti e molte vorrebbero ricevere l’ordinazione». Su papa Francesco che ha recentemente ribadito il suo no alle ordinazioni sacerdotali delle donne, suor Monika si limita a dire che «è rimasto indietro e ciò dispiace». Dunque, la vocazione o la chiamata basta sentirla, la preparazione con laurea c’è già stata, l’esperienza pastorale anche, adesso è necessario «qualcosa di più». Perché negare allora l’ordinazione sacerdotale? Tale opinione dice che la posizione di coloro che difendono il Magistero che esclude le donne dal ministero apostolico fondandosi sul Nuovo Testamento è ormai ampiamente minoritaria. Così viene contestato il pronunciamento definitivo emesso con Ordinatio Sacerdotalis da S. Giovanni Paolo II il quale – impegnando l’infallibilità pontificia – osservava come nella Chiesa antica, che riteneva vincolante la scelta di Gesù di non avere donne fra gli apostoli, esse non avessero mai svolto le funzioni di vescovo o presbitero, mentre rimane tutt’ora controverso il diaconato femminile. Per la maggioranza dei teologi tale decisione è considerata ingiusta e discriminante poiché l’antropologia è radicalmente mutata. Alcuni decenni fa ad Oda Schneider (1892-1987), in religione suor Maria Cordis ocd, studiosa e autrice di un libro sul sacerdozio femminile e che conobbe Edith Stein, era sufficiente affermare che alle donne nella Chiesa compete una «sequela del silenzio»: le donne che seguono Gesù nei Vangeli si preoccupano per lui, lo servono, stanno sotto la croce, ma senza chiedersi il perché «così come le candele non si chiedono a che scopo brucino in silenzio sugli altari». Oggi tale prospettiva appare assolutamente improponibile.

Il Santo Padre in una ennesima intervista – questa volta all’Associated Press – avrebbe detto, secondo quanto riportato da un comunicato Ansa, che «essere omosessuale non è un crimine. Non è un crimine. Sì, ma è un peccato. Prima distinguiamo tra un peccato e un crimine» ed ha aggiunto che «è peccato anche mancare di carità verso gli altri» (El ser homosexual no es un delito. No es un delito. Si, pero es pecado. Bueno, primero distinguamos pecado por delito. Pero también es pecado la falta de la caridad con el projimo). Ora, per la verità, sarebbe opportuno che anche il Supremo Pastore ricordasse – come ha fatto – che se nessuno e mai può ritenerlo un crimine, secondo la dottrina cattolica, l’omosessualità non è nemmeno ascrivibile tra i peccati. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (2357) riprendendo la dichiarazione Persona Humana del 1975, afferma che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» in quanto contrari alla legge naturale e preclusivi del dono della vita. Gli atti quindi, non la tendenza, per cui gli omosessuali devono essere accolti con rispetto evitando ogni  ingiusta discriminazione (235). Se a proferire le parole di Francesco fosse stato Benedetto XVI – cosa semplicemente impossibile – possiamo immaginare i titoli sullo scandalo di un papa che rubrica l’omosessualità fra i peccati. Ma siccome a parlare è Bergoglio, tutti titolano sul fatto che l’omosessualità «non è un crimine». Ma va?

Su spinta del noto gesuita padre James Martin S.J. in Vaticano si è corsi ai ripari e il papa ha chiarito, in riferimento all’omosessualità, che “quando ho detto che è un peccato, mi riferivo semplicemente all’insegnamento morale cattolico, che dice che ogni atto sessuale al di furi del matrimonio è un peccato”. Meglio tardi che mai.

Lo stesso papa Francesco e nella stessa intervista, ci fa sapere poi che lui non solo non avrebbe saputo nulla degli abusi del confratello gesuita padre Marko Rupnik ma nemmeno sarebbe intervenuto per la remissione della scomunica, provvedimento che spetta esclusivamente alla Sede Apostolica, al cui vertice è il Romano Pontefice. Insomma, la Dottrina della fede avrebbe processato Rupnik all’insaputa del papa, lo avrebbe condannato, confermando la scomunica, sempre ad insaputa del papa e, poco dopo, sempre ad insaputa del papa, lo avrebbe “graziato” rimettendogli la scomunica. Quia absurdum

Nonostante qualche avveduto esponente del cerchio magico di S. Marta abbia consigliato al papa di smettere la pratica continua delle interviste che ne logorano e inflazionano l’immagine assimilandolo a un qualsiasi leader sudamericano, il Santo Padre non intende ragioni e continua imperterrito a discettare su tutto con tutti gettando nel panico i sempre più inutili uffici vaticani della comunicazione i quali hanno la sensazione – assai  fondata – che siano ormai i giornalisti “amici” a portare avanti questo esausto pontificato.

Il 16 gennaio – meglio tardi che mai – i cardinali Parolin, Ladaria e Ouellet hanno scritto a quei sei vescovi tedeschi che chiedevano da tempo lumi a Roma circa l’obbligo di sottostare ad un organo di governo  sovraordinato – il Consiglio Sinodale – creato dallo stesso sinodo come struttura permanente. Confermando loro che tale organismo contraddice palesemente quanto enunciato da Lumen Gentium, 21 sull’ufficio del vescovo di governare che si acquisisce con la consacrazione episcopale, i tre cardinali hanno dichiarato che «né il Cammino sinodale, né alcuna Conferenza episcopale ha la competenza di istituire il Consiglio sinodale a livello nazionale, diocesano o parrocchiale». Naturalmente, monsignor Batzing, presidente dei vescovi tedeschi ha risposto che il Sinodo tirerà diritto per la sua strada.

Ricevendo i prelati uditori della Rota Romana il papa, trattando del matrimonio, ha detto loro che «Tutto ciò ci porta a riconoscere che ogni vero matrimonio, anche quello non sacramentale, è un dono di Dio ai coniugi. Sempre il matrimonio è un dono!». Come disse la buonanima del cardinale George Pell, commentando le esternazioni di Francesco, Roma loquitur, confusio augetur.

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