SACRO & PROFANO

Pronta l'infornata di parroci, intellos contro il battesimo

A giugno le nomine di Repole. Per la successione di don Franco in cattedrale il più accreditato è il liturgo principe della diocesi don Tomatis (con gran scorno degli "indietristi"). I martiri delle persecuzioni titine. Addio a Gabotto, anima di Candiolo

Le nomine dei nuovi parroci nella diocesi di Torino da parte dell’arcivescovo Roberto Repole non arriveranno prima di giugno. Fra queste la più importante è la cattedrale metropolitana di S. Giovanni Battista, resasi vacante dopo la scomparsa di don Carlo Franco. Secondo alcune voci – ma circolano anche altri nomi – potrebbe essere don Paolo Tomatis, direttore dell’Ufficio liturgico e molte altre cose, confermando così la congregazione dei preti di S. Lorenzo come centro nevralgico della diocesi. Sembra però che il liturgo principe non brami affatto di assumere un impegno pastorale pieno e diretto come quello di parroco del duomo e preferisca continuare a coltivare gli amati studi. Se però dovesse cambiare idea, non mancheranno in cattedrale accoglienza e dolcezza, insieme alla dispensazione a piene mani – salvo che per gli indietristi – della misericordia.

L’accoglienza però dovrà sempre essere “premurosa”, cioè indirizzata e controllata. Don Tomatis è infatti conosciuto, nei circoli del tradizionalismo torinese, come l’inventore di una delle più esilaranti locuzioni che il clericalese abbia mai prodotto. Nel 2015, l’Ufficio liturgico, pubblicò gli «Orientamenti per le Messe festive» in cui, fra l’altro, le eventuali richieste dei fedeli della celebrazione in modo continuativo della Messa nella forma straordinaria – eravamo ai tempi di Summorum Pontificum – dovevano essere accolte sì con «generosa accoglienza», così come voluto dal motu proprio, ma che andava coniugata con la «premurosa attenzione». Di qual genere fosse tale premurosità lo avevano ben sperimentato quei fedeli che, illusi, pensavano ancora che un vescovo dovesse obbedire – o almeno non porre ostacoli – alle  decisioni di un pontefice. Cosa non accaduta invece con Traditionis Custodes di papa Francesco, che ha sostanzialmente abolito ogni concessione, e che è stata invece commentata con dovizia. Insomma, con Benedetto XVI adesione critica e discernimento, con Francesco obbedienza «cieca pronta e assoluta» di trinariciutesca memoria.

Circola però anche l’ipotesi di unire alla parrocchia del duomo le viciniori S. Tommaso – già aggregata di fatto – e S. Agostino dove è parroco don Andrea Pacini che, a questo punto, potrebbe diventare il super parroco del centro storico. Ci sarebbe però anche un outsider che per adesso teniamo in pectore. In ogni caso, se il pontificato di Francesco durerà, quello di parroco della cattedrale di Torino potrebbe essere un buon viatico per ascendere all’episcopato in una delle diocesi che il prossimo anno si renderanno vacanti in Piemonte, prima Novara e poi Ivrea. Ad altiora!

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Sembra che la Compagnia di Gesù stia per prendere qualche provvedimento nei confronti di padre Marko Rupnik avendo i superiori confermato le violenze psicologiche, sessuali e spirituali commesse dallo stesso, nonché il grave abuso nel sacramento della Riconciliazione. Così l’Università Gregoriana ha annullato le collaborazioni in corso e il nome del religioso è scomparso anche dai molti incarichi rivestiti in Vicariato. Nell’intervista concessa all’Associated Press del 25 gennaio, papa Francesco si è espresso sul suo confratello con severità ma – come sottolinea il sito bergogliano Settimana News – non ha chiarito alcunché. Anzi, ha evocato un risarcimento (di chi, verso chi?) e non ha detto chi gli abbia revocato la scomunica e nemmeno «su come comportarsi con gli scritti e le opere musive presenti in centinaia di chiese cattoliche e non». Ricordiamo che il caso non sarebbe venuto alla luce se alcuni organi di stampa, fra cui in primis il quotidiano Il Domani, non avessero raccolto mesi fa le testimonianze delle vittime di Rupnik. Per questo, pur distinguendo tra fra gli atti inammissibili del padre, sempre da condannare, e il suo lavoro di artista, è parso  a molti inopportuno e imbarazzante utilizzare come immagine per le celebrazioni dei 50 anni di istituzione del diaconato proprio un mosaico del gesuita sloveno.

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Prosegue per Enzo Bianchi il percorso della monumentalizzazione di stesso. In occasione della pubblicazione della sua biografia presentata al Circolo dei lettori di Torino e in attesa di trasferirsi nella nuova Bose di Albiano, l’ex priore ha rilasciato l’ennesima intervista dove però non gli sono state rivolte le due domande più importanti e decisive: che cosa sia successo veramente nel monastero sulla Serra da lui fondato e le motivazioni per cui ne è stato allontanato. Lo stesso Bianchi, recensendo con favore un volume sull’architettura del dopo-concilio, quando si edificarono chiese «accusate di essere per lo più brutte, spoglie, inespressive e senz’anima», ha citato il compianto padre David Maria Turoldo – certamente non ascrivibile al fronte conservatore – che così le giudicava: «Oggi le chiese sono come garage dove Dio viene parcheggiato e i fedeli sono tutti allineati davanti a Lui». Per Torino il pensiero non può non correre alle chiese – capannoni industriali in cemento armato costruite in serie ai tempi del cardinale Michele Pellegrino. I documenti che nei decenni gli episcopati europei e di tutto il mondo hanno dedicato all’architettura religiosa sono una congerie tale da riempire una biblioteca. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e quella che Bianchi considera una provocazione, altro non è se non l’amara invocazione del sempre più sconsolato fedele: “Signore, condonali perché non sanno quello che costruiscono!”. Oggi, per fortuna e sollievo dei nostri occhi, non si edificano più chiese, sempre più vuote e spesso chiuse e il problema è diventato che cosa farne. Ma mentre per le chiese più antiche la conservazione è meritevole e d’obbligo, per quelle del post-concilio nessuno piangerà se saranno destinate a quegli usi profani per cui, alla gente comune, parevano destinate quando furono realizzate.

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Alle esternazioni della virgo veneranda suor Giuliana Galli che aveva definito l’aborto come «l’unico bene possibile», ha replicato con un comunicato stampa il Padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza, don Carmine Arice, in cui ribadisce che i figli – e le figlie – del Cottolengo affermano «il valore sacro della vita umana, dal suo inizio fino al suo termine naturale». A proposito di sanità cattolica, la presidente dell’ospedale pediatrico vaticano del Bambino Gesù, Mariella Enoc, ha annunciato le sue dimissioni dopo un colloquio con il Santo Padre. La manager novarese è stata per dieci anni procuratore speciale dell’ospedale Cottolengo, presidente di Confindustria Piemonte, vicepresidente della Fondazione Cariplo dal 2004 al 2019, ed è attualmente membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Don Gnocchi e presidente della Fondazione Ismu. Insomma, vera potentissima virgo.

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Nella sua annuale relazione statistica sulla situazione della diocesi di Casale Monferrato – documento che dovrebbero redigere e pubblicare tutte le diocesi – il cancelliere, don Davide Mussone, commentando i dati conclude con quello che appare un grido d’allarme: «La situazione è drammatica, seria e preoccupante. In 30 anni la Diocesi ha perso più di 100 sacerdoti, senza contare il drastico calo dei religiosi e delle suore ed ha perso circa 13.000 abitanti. Vi è un prete ancora attivo in discreta forza ed età ogni circa 2.300 fedeli sparsi nel territorio. È inutile nascondere la verità, i numeri parlano chiaro». Starà approntando qualche rimedio il vescovo Gianni Sacchi – magari incrementando gli arrivi di preti dal Togo – o continuerà a restaurare l’episcopio?

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Micromega, la rivista della sinistra intellettuale più radicale diretta da Paolo Flores d’Arcais, sta per lanciare una nuova battaglia per l’emancipazione e i diritti. Si tratta di vietare il battesimo ai minori, in quanto l’amministrazione di tale sacramento – residuo della cristianità e della Chiesa costantiniana – non salvaguarderebbe «l’interesse superiore del bambino» e violerebbe la «Convenzione sui diritti dei bambini ratificata dall’Italia nel 1991». Siamo certi che a favore dell’iniziativa non mancherà il supporto dei cattolici “adulti”, insieme a quello di qualche istituto teologico d’avanguardia. Naturalmente con lo scopo di «rendere la fede praticabile insieme».

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In occasione del giorno del Ricordo, vogliamo far memoria dell’eroico monsignor Antonio Santin, già vescovo di Fiume e poi di Trieste e Capodistria (1938-1981) e che abbiamo avuto la fortuna di conoscere nel 1974. Difensore degli ebrei triestini, il 19 giugno 1947, in occasione della festa patronale di Capodistria, subì una violenta aggressione da parte dei comunisti titini che lo malmenarono a sangue. Scampato fortunosamente alla morte, non poté infine più ritornare nelle sue parrocchie istriane passate alla Jugoslavia. Nel 1977, due anni dopo il trattato di Osimo, le diocesi di Trieste e Capodistria furono separate e rese autonome. Sorte tragica subirono invece, solo per citarne alcuni, don Miroslav Bulešić e don Francesco Bonifacio, martiri istriani morti in odium fidei, uccisi dai miliziani comunisti. Il primo, giovane sacerdote, pagò con la vita l’aver impedito la profanazione del tabernacolo da parte dei titini che avevano interrotto una funzione nella chiesa di Pinguente e che l’indomani, il 24 agosto 1947, a Lanischie, lo accoltellarono. Il secondo, accusato di voler dare sepoltura cristiana alle vittime della persecuzione comunista, venne aggredito da due “guardie popolari” e infoibato a Villa Gardossi il pomeriggio dell’11 settembre 1946 e i suoi resti non furono mai identificati. Don Miroslav e don Francesco furono dichiarati beati da Benedetto XVI. Abbiamo ancora raccolto la testimonianza del compianto monsignor Livio Maritano (1925-2014), già vescovo di Acqui che, dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1948, fu inviato viceparroco a Venaria Reale dove era parroco monsignor Francesco Sanmartino (1911-1983), poi vescovo ausiliare. Questi, sapendo che i capi comunisti avevano minacciato di impiccare ad un lampione ogni prete che girasse da solo, invitava sempre lui e il suo confratello viceparroco a non uscire di casa la sera. Appare perciò poco comprensibile la meraviglia di chi, tracciandone la storia, si sorprende – quasi rammaricandosene – dei toni anticomunisti che il giornale diocesano assumeva in quegli anni.

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È mancato Giampiero Gabotto che fu consigliere delegato della Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro dal 1997 al 2018 e dal 2011 al 2017 direttore generale di quell’Istituto di Candiolo che, sotto la sua guida, raggiunse numerosi traguardi. In precedenza, era stato dirigente dell’Alitalia e in tale veste accompagnò S. Giovanni Paolo II in numerosi viaggi apostolici arrivando a conoscere molto bene il papa che chiamava simpaticamente «l’Uomo che vola». Professionista di valore, discendente del grande storico Ferdinando Gabotto, Giampiero era conosciuto come cattolico, amante della liturgia e frequentatore della Messa antica, distinguendosi sempre per la sua schiettezza, ma anche per la sua generosità e fedeltà alla Chiesa. Ora è nella luce perpetua perché, come lui spesso amava ripetere con quel prefazio latino che sapeva cantare a memoria: Vita mutatur non tollitur.

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