SACRO & PROFANO

La nuova Bose arranca, Enzo Bianchi batte cassa

Mancano soldi per terminare i lavori del cascinale destinato al buen retiro (spirituale) dell'ex priore. Riunione dei diaconi con le mogli: Torino apripista per le "diaconesse"? Don Marx di Mezzi Po non dà l'ostia in bocca

Lo “zio Enzo” batte cassa. Sembra che la “Casa della Madia” – l’ampia e vasta cascina completamente ristrutturata di Albiano d’Ivrea destinata a diventare, a pochi chilometri da quell’antica, la nuova Bose – abbia qualche difficoltà economica in vista della progettata apertura nel mese di giugno. È apparso infatti sui social un accorato appello dell’ex priore Enzo Bianchi in cui comunica che, nonostante la generosità dei suoi influenti e ricchi amici, non si riesca a completare l’imponente edificio «dove insieme ad altri potremo accogliere e camminare con voi alla ricerca dell’uomo e di Dio». Si accettano quindi donazioni precisando che «in tutta la mia vita non ho mai chiesto nulla per la fondazione e lo sviluppo della Comunità di Bose». Qualcuno ha però avuto da obiettare in quanto se corrisponde al vero che non si chiedevano oblazioni per Bose, è altrettanto vero che il priore e i suoi accoliti si spostavano per conferenze, ritiri e meditazioni solo dietro la corresponsione di più che cospicui compensi. Date et dabitur vobis.

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Attualmente i seminaristi a Torino sono in tutto diciotto, un numero ampiamente insufficiente per rimpiazzare i decessi dei preti diocesani. È stata diffusa in questi giorni la proiezione statistica della Curia di Milano sul crollo delle vocazioni in cui il numero dei preti è destinato a ridursi di oltre il 37 %, pertanto nel 2039 l’arcidiocesi ambrosiana potrebbe accogliere l’ultimo nuovo prete under 30. Il teologo Paolo Brambilla ha spiegato che tale tendenza era già nota e che di conseguenza qualcosa dovrà essere rivisto: «Dovremo snellirci senza avere paura, consapevoli di non poter arrivare ovunque e i fedeli dovranno abituarsi all’idea che, parafrasando Celentano, non ci sarà più un prete disponibile per una chiacchierata». Rimanendo in tema di vocazioni, in Irlanda, dove fino a qualche anno fa i seminari erano affollati, adesso gli aspiranti al sacerdozio sono in tutto venti. In proposito, un prete impegnato nella pastorale ha dichiarato: «Siamo talmente intrisi di ideologia che abbiamo passato tutti questi anni a dire che non sono importanti i numeri ma la qualità. Il risultato è che non abbiamo né numeri né qualità. La superbia è una brutta malattia». Quella dell’insignificanza dei numeri e del primato della qualità è uno slogan che sentiamo ripetere come un mantra dagli Anni Sessanta e che è ancora corrente nelle diocesi piemontesi. Più che una “Chiesa umile”, una Chiesa “inutile”.

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Si è tenuto il 6 maggio presso Villa Lascaris di Pianezza un incontro con i diaconi della diocesi al quale hanno anche partecipato le mogli. Al termine, si sono tenute le votazioni per l’elezione del nuovo organismo di coordinamento e per la prima volta anche le signore hanno eletto un gruppo di cinque di loro «per servire la fraternità», tra le quali il vescovo sceglierà poi le due che faranno parte del coordinamento. Si possono chiamare diaconesse? Questo non ancora perché per la Chiesa Cattolica non è tuttora chiaro quale fossero nelle comunità primitive le funzioni attribuite a quelle donne che in alcuni testi vengono definite «diaconesse» e che non avrebbero avuto ruoli di predicazione o di guida. Papa Giovanni Paolo II aveva approvato una lettera nel 2001 in cui in cui stabiliva che «non è lecito porre in atto iniziative che in qualche modo mirino a preparare candidate all’ordine diaconale». Successivamente, come sempre su spinta dei tedeschi, il cardinale Walter Kasper non escluse l’ordinazione diaconale – intesa come sacramento e primo grado del sacerdozio – anche per le donne. Nel 2016 papa Francesco annunciò l’istituzione di una commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva per verificare se e come attualizzare quella forma di servizio, ritenendo che le diaconesse possano rappresentare «una possibilità per oggi». Torino, anche sotto questo profilo, anticipa i tempi nuovi.

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Qualche nota sull’incontro di domenica scorsa, avvenuto a palazzo Madama, organizzato dall’associazione “Logos e Persona”, presieduta da don Salvatore Vitiello, al quale ha partecipato il cardinale Gerhard Müller, già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e curatore dell’Opera Omnia di Benedetto XVI. All’inizio è stato letto l’indirizzo di saluto dell’arcivescovo Roberto Repole, l’assessore regionale Maurizio Marrone ha moderato l’incontro, al quale hanno partecipato almeno duecento persone. L’intervento del porporato ha toccato i punti più “caldi” dell’attuale scenario politico-religioso e ha messo a tema gli “innominati” del nostro tempo: inizio e fine vita, ideologia gender e tentativi surrettizi di introdurre la stepchild adoption, come “apri porta” della pratica disumana – oltre che delittuosa – dell’utero in affitto. È seguita la presentazione del libro del cardinale sulla missione e il ministero del papa, costituito al servizio della verità del Vangelo e dell’unità della Chiesa, come argine ai potentati di questo mondo. In conclusione, don Vitiello ha auspicato che «la città non diventi un laboratorio di morte» e la Torino cattolica possa far sentire la sua voce – non omologata alla «cultura della morte» – nel dibattito culturale, così come peraltro sottolineato dall’arcivescovo.

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Durante il suo viaggio in Ungheria, papa Francesco ha di nuovo lanciato l’anatema contro gli «indietristi» che costituirebbero, con la loro «reazione contro il moderno», il peggior pericolo che oggi corre la Chiesa. Inutile qualsiasi ragionata risposta a quella che sembra diventata un’ossessione. Si potrebbe obiettare che i veri «indietristi» siano quelli che hanno il limite di non andare più in là del ’68. Sotto questo profilo, rimanendo nell’iperbole, i tradizionalisti sarebbero allora i veri «avantisti», avendo avuto il coraggio di andare oltre gli Anni Settanta, magari seguendo il magistero di un certo San Giovanni Paolo II o di un Benedetto XVI.

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Devastationis Custodes

Uno dei più pittoreschi esponenti del clero torinese è senza dubbio il parroco di Mezzi Po, frazione di Settimo Torinese, il simpatico e volitivo don Paolo Mignani. Di origine bergamasche, classe 1949, ordinato nel 1978, egli è noto alle cronache per le sue battaglie contro la discarica e per essere da sempre identificato come l’eroe eponimo di quel genere clericale in via di estinzione che sono stati i preti operai torinesi. La narrazione corrente li venera, se non quasi santi, almeno alla stregua di profeti, ma agli occhi dei giovani appaiono come chi vanta il titolo di monsignore o è insignito dell’Ordine di Lenin o della Giarrettiera. Qualche malevolo sinedrita – non da oggi – racconta un’altra storia e cioè quella di un manipolo di chierici che con l’ingresso in fabbrica entrarono contemporaneamente nel sindacato – solitamente di sinistra – facendo i delegati a tempo pieno e i funzionari fino alla pensione anticipata, tornando poi al ministero a tempo pieno in qualche parrocchia tranquilla. Ma questi sono i maliziosi. Come disse Bruno Manghi, sociologo, saggista e dirigente sindacale Cisl, la vicenda dei preti operai può essere compresa solo all’interno «della fascinazione e dell’ubriacatura degli intellettuali europei verso il marxismo che, ancora prima del Concilio, contaminò largamente la Chiesa». Il patriarca di Venezia, cardinale Albino Luciani, poi papa Giovanni Paolo I, non aveva un buon rapporto con i preti operai. A loro chiedeva che almeno non si iscrivessero alla Cgil sostenendo, a ragione, che invece di convertire la classe operaia al Vangelo finissero essi, senza nemmeno rendersene conto, contagiati dal marxismo e dall’immanentismo.

Ma ritorniamo al “Carlo Marx di Mezzi Po”, il quale presta con generosità anche servizio nella sua Unità pastorale dove dispensa, assai amato, la vulgata del Vangelo dei poveri. Pare che in una delle domeniche scorse, in una chiesa di Settimo, agitando marxianamente quella barba che lo rende assai simile al profeta di Treviri, abbia negato la comunione sulla lingua a una fedele spiegandone a fine Messa i motivi. La sintesi è questa: pure se le norme lo prevedono, lui non si presterà mai a tale abominio, in quanto la cosa gli fa schifo e perché Gesù ha detto «prendete e mangiate» e «mica imboccava la gente». Sempre che il racconto corrisponda al vero non si comprende, in tal caso, ove sia prevalente l’arroganza o l’ignoranza o ambedue. In ogni caso, don Paolo può stare tranquillo per tre motivi: 1) nessuno, pur avendo egli commesso un abuso gli contesterà mai alcunché; 2) qualora qualche superiore dovesse farlo si limiterà a raccomandargli di stare attento che in chiesa non ci nasconda qualche malvagio «indietrista»; 3) sappia poi che il vescovo lo stima e perciò vada pure avanti così e se dovesse mai arrivare qualche lettera di protesta in Curia o a Roma stia certo che non succederà niente. Si vigili invece sui giovani perché non coltivino velleità tradizionali o anche solo ortodosse, oppure siano legati al magistero di Benedetto XVI. In questi casi, tali perverse aberrazioni andrebbero individuate, stroncate e bollate come anticonciliari o contrarie a papa Francesco. Sembra comunque che a Settimo Torinese la frequenza alle Messe festive sia da qualche anno – ancora prima della pandemia – in caduta libera, i giovani spariti e le chiese popolate da sempre meno anziani. Ai quali viene pure rifiutata la comunione secondo quanto prescritto e permesso dalla Chiesa.

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