SACRO & PROFANO

Nella Chiesa avanzano gli "indietristi"

Nonostante gli ostacoli, normativi e pastorali, e le misure per limitarne la diffusione, la fede legata alla tradizione è in grande ripresa, soprattutto tra i giovani. Il caso di don Pizzocaro, le "etichette" e le lobby ecclesiali torinesi. La preoccupazione per le Messe "spettacolo"

Fra il gruppo dei “famigerati” sacerdoti ordinati nel 2013 – subito etichettati come conservatori e   che spaventarono a morte l’establishment della diocesi tanto da costituire ancora oggi argomento di conversazione – ha sempre spiccato, per il suo carattere estroverso e per i suoi modi franchi e diretti, don Carlo Pizzocaro, nato nel 1987, attuale parroco di Cumiana. Il minimo che si possa dire di lui è che si è sempre sentito profondamente prete e per questo, fin dal seminario, non ha mai avuto vita facile. Dopo l’ordinazione è stato inviato nel “campo di rieducazione” progressista della parrocchia di S. Rita sotto le cure di una delle “vacche sacre” del clero postconciliare, il ruvido ma buono, don Leonardo (Lello) Birolo, classe 1942, ordinato nel 1965, già vicario episcopale, che ha avuto il compito – non facile – di convertire il giovane don Carlo alla traditio ecclesiastica torinese post conciliare che da decenni è fatta di pauperismo, sociologismo e subordinazione al pensiero secolarizzato. Il quale, invece, si impegnò nella pastorale parrocchiale continuando a scrivere libri e a predicare per l’Italia.

Dopo sette anni, venuto il momento di affidargli una parrocchia, ci si pose perciò il problema di evitare in tutti i modi di esaudire il suo desiderio, ovvero che gli fosse affidata una comunità in città, per timore che il suo modello di predicazione, di catechesi e di prete potesse in qualche modo costituire un esempio. Fu così mandato a Cumiana che da sempre è la parrocchia confino e di confine della diocesi – territorio estesissimo, tre parrocchie, 8mila abitanti e un numero spropositato di chiese – con il chiaro intento di “asfaltarlo” mediante una pastorale routinaria che, nelle intenzioni, lo avrebbe sfiancato e reso innocuo senza potere nemmeno, vista la lontananza, comunicare con confratelli e sodali. Non considerando, sotto quest’ultimo aspetto, che i social rendono ormai del tutto inutili tali antiquate misure che però dicono molto del modo di pensare dei nostri gerarchi. Don Carlo ha invece obbedito – «sono dove non volevo essere» – e si è dedicato al ministero e al suo gregge con lo stile di sempre, che di lui è forse l’aspetto meno gradito ai suoi critici.

Ne ha parlato in una testimonianza che Avvenire ha pubblicato mercoledì 10 maggio dal titolo, “Io giovane prete e contento di esserlo”, in cui nel ripercorrere la sua chiamata ha affermato di essere «invischiato in così tante questioni pastorali amministrative che non ho più scritto libri e ho ridotto praticamente a zero la predicazione itinerante, ma sono contento perché forse ho trovato la via della salvezza e chi cammina con me ora non rischia di essere perduto». Quale sarà il suo domani, quando ci saranno pochissimi preti con pochi fedeli oberati dalle strutture? «Non lo so e non me ne preoccupo. Mi occupo del “gregge di oggi”, perché non sono chiamato a preoccuparmi dell’“azienda di domani”. Perché questo Dio, che non chiede comprensione ma fiducia, non mi ha mai tradito, mi ha sempre condotto dove io non sarei andato e in questo viaggio mi sono fatto male solo quando ho puntato i piedi e gli ho voltato le spalle. Non so che prete sarò domani. Spero semplicemente quello di cui Lui avrà bisogno, perché solo così continuerò ad essere felice».

L’articolo ha suscitato qualche malumore nei confratelli, ma d’altro canto lo stesso don Carlo è da sempre un prete scomodo fin dal giorno dell’ordinazione: «Quel giorno, prostrato a terra ero schiacciato dal peso delle etichette che mi erano state appiccicate addosso. Mi preparavo ad entrare in una famiglia, il presbiterio diocesano, che mi aveva mostrato il volto di una lobby più che di una fraternità. Avevo paura, ma ero anche consolato; la Chiesa non è una famiglia ideale, ma una fraternità fragile. Non potevo scappare, dovevo ancora convertirmi». Dopo la pubblicazione, sul canale Youtube di Silere non posssum è comparsa una sperticata e anche appassionata difesa di don Carlo da parte di Felipe Perfetti che se l’è presa con don Marco Vitale, prete romano, esperto di formazione del clero e di integrazione psico-spirituale, colpevole – se abbiamo ben compreso – di aver espresso critiche pregiudiziali.

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Per rimanere ad Avvenire, va segnalato che il quotidiano “di ispirazione cattolica” ha ripreso dal 5 maggio, in prima pagina e con la massima evidenza, la pubblicità del 5 per mille a favore dell’Arci dove sorse, nel lontano 1980, l’Arcigay, voluto da un sacerdote e teologo, don Marco Bisceglia, che fu riammesso nella Chiesa solo poco prima di morire, malato di Aids, dopo la supplica inviata al papa in cui si pentì di quelli che chiamò «i miei errori e traviamenti».

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Sull’ultimo numero della Voce del Tempo Giorgio Merlo, trattando del tema cruciale della natalità,  rappresenta efficacemente quale sia il dilemma in cui si dibattono oggi i cattolici impegnati in politica: «Delle due l’una: o si cerca di restare, seppur con grande fatica e “senso del limite”, coerenti con il proprio retroterra ideale e culturale oppure si decide, altrettanto legittimamente, che la propria cultura di riferimento può essere tranquillamente e sistematicamente sacrificata sull’altare della convenienza politica momentanea e della “ragion di partito”». Poiché è abbastanza evidente «che un modello di società ispirato a valori radicali, libertari, massimalisti e che confliggono apertamente con tutto ciò che seppur vagamente è riconducibile alla dottrina sociale e cristiana, difficilmente può essere la bussola di riferimento per i cattolici impegnati in politica».

Il ragionamento dell’onorevole Merlo non fa una grinza, il punto è che la pratica politica del  cattocomunismo ha da tempo soggiaciuto al secondo corno del dilemma da lui prospettato con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e dove per salvare almeno il posto non è bastato per  alcuni scavarsi la nicchia dei catto-dem. Il discorso del sindaco di Pragelato dovrebbe però interrogare anche i vescovi, coloro che avrebbero il dovere di orientare sui principi e che invece tacciono. In una recentissima intervista, l’arcivescovo Roberto Repole, ha lamentato che Torino soffra di «debolismo», una nuova categoria interpretativa della crisi generale che affligge la società, ma del quale non fornisce i dettagli, né spiega a che cosa si riferisca nel concreto. Certo è assai strano che tale rilievo provenga dal teorico della «Chiesa umile», quella che non ha più pretese veritative ma si limita ad accompagnare l’uomo su questa terra. Tempo fa Enzo Bianchi scrisse che compito del cristiano di oggi è quello della «disidentificazione della fede per accettare la verità dell’altro». Con simili maestri è naturale – e non sorprende – che i cristiani siano diventati una presenza debole e marginale.

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Devastationis Custodes

Per la prima volta dal Concilio – almeno a nostra memoria – un istituto liturgico ha dedicato un convegno di studio alle «derive» nelle celebrazioni della Messa e cioè al quotidiano delle nostre chiese. Segno che il prete celebrante vestito da ciclista, quello che consacra con un casco da motociclista, quello che fa il suo ingresso all’altare in monopattino o quello più famoso di tutti che celebra sul materassino e si potrebbe continuare all’infinito, cominciano a destare qualche preoccupazione, considerata anche la caduta verticale della frequenza ai riti ridotti a spettacoli. Fino ad oggi, infatti, tali abusi erano giustificati e anche visti con favore (si veda il liturgista Andrea Grillo) come uno dei capisaldi dell’insegnamento liturgico post-conciliare e cioè la «creatività». Così l’Istituto di liturgia pastorale Santa Giustina di Padova, il pendant ancora più progressista dell’istituto romano di S. Anselmo e già feudo del massimo liturgista piemontese, il terribile Alceste Catella, nemico acerrimo di ogni «indietrismo», ha riflettuto sul fenomeno con tre giorni di studio (8-10 maggio) dedicati al tema: “La liturgia manomessa. I disturbi comunicativi del rito”. Titolo che già dice tutto in merito all’approccio. Occorre dire subito che mentre S. Anselmo da tempo è ridotta a esplorare la storia dei riti, con meticolosa, ossessiva, inutile e reiterata pignoleria ma senza sintesi a scapito di una visione globale del «corpo liturgico», l’approccio di Padova è che la liturgia va piegata alla pastorale, quindi non ha una sua identità, nella quale gli uomini «entrano», ma tale identità è plasmata e creata per fini pastorale dall’assemblea che celebra. Fra i vari relatori compare – ovviamente – il nostro don Paolo Tomatis che parlerà sul tema: “Disturbi premeditati: Quando il rito diventa un set” e cioè – salvo non poche e apprezzabili   eccezioni – sempre.

L’iniziativa di S. Giustina è comunque da accogliere con favore ma non servirà a molto non solo perché esclude il versante disciplinare ma perché non va alla radice del problema. Che può semplicisticamente, ma efficacemente, essere sintetizzata in tre parole. Quando sottoposero al cardinale Giuseppe Siri lo schema di quella «Messa normativa» che sarebbe poi sfociato nel Messale oggi vigente, si limitò a dire: vel, vel, vel e cioè oppure, oppure, oppure. La manomissione del rito trova quindi la sua prima causa nel rito stesso dove ogni sacerdote celebra come più gli aggrada prendendosi peraltro ogni legittima libertà. L’esempio poi viene dall’alto perché se un vescovo può tranquillamente girare rivestito dei paramenti in cattedrale – come ha fatto l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice – un prete può ben celebrare vestito da ciclista o con le pinne ai piedi. L’ultima relazione del convegno ha per titolo: “Che cosa è andato male? Antropologia di una celebrazione difettosa”. Giusta domanda, che però dovrebbe essere preceduta altri due interrogativi: Che cosa abbiamo perduto? Che cosa sono diventate le nostre celebrazioni? Lo profetizzò san Paolo VI quando nella lettera apostolica Sacrificium Laudis temeva che la liturgia sarebbe diventata «come un cero spento che non illumina più, non attrae più a sé gli occhi e le menti degli uomini».

Non tutto è però devastazione perché, nonostante Traditionis Custodes e la guerra senza quartiere che è stata ingaggiata contro la Messa antica, i giovani fedeli non demordono e il pellegrinaggio di Pentecoste da Parigi a Chartres avrà quest’anno una partecipazione mai vista. Sono già infatti 16mila gli iscritti che dalla capitale francese cammineranno per tre giorni, dal 27 al 29 maggio, fino al santuario mariano (88 km) dove si celebrerà – come da quarant’anni a questa parte – il solenne Pontificale in Vetus Ordo. L’età media dei pellegrini è quest’anno di 20,5 anni. Come osserva Odile Téqui, responsabile della comunicazione dell’associazione Notre-Dame de Chrétienté, «la liturgia tradizionale sembra rispondere ad una sete – accresciuta negli ultimi tempi – di trascendenza, di un solido catechismo, di calma e di profondità. Anche i nuovi convertiti o riconvertiti che vengono al pellegrinaggio testimoniano la realtà gioiosa e accogliente che vi trovano».

Anche la terza edizione del pellegrinaggio tradizionale da Oviedo nelle Asturie al santuario mariano di Nostra Signora di Covadonga (90 km) si annuncia un successo come lo fu, sorprendentemente, l’anno scorso in Svezia.

Per rimanere in Francia – dove i seminari chiudono uno dopo l’atro (Lille, Bordeaux, Metz…) vi è  da segnalare come alle iniziative delle diocesi per illustrare Desiderio Desideravi, la lettera di papa Francesco sulla liturgia, allorché si presentano i fedeli tradizionalisti chiedendo la parola, vescovi e  preti boomer, invece di rispondere con stile sinodale se la danno a gambe levate. Così è successo nella chiesa parrocchiale di Saint-Honoré d'Eylau dove un fedele ha dichiarato: «Perché una Messa che esiste da secoli, non dovrebbe più essere celebrata mentre il rito zairese sì e mentre hanno lasciato che elementi pagani invadessero le liturgie del Sud e del Centro America con il pretesto dell’acculturazione, prima di far uscire il rito amazzonico?».

Alle giornate parigine dedicate alla lettera papale, alle quali doveva partecipare il prefetto del dicastero per il culto Divino, cardinale Arthur Roche, questi ha dato forfait temendo di dover rispondere a domande poco gradite o essere contestato lasciando a vedersela con i fedeli il segretario del dicastero, l’assai poco mediatico monsignor Vittorio Viola, biellese, vescovo emerito di Tortona, meglio conosciuto, per la sua propensione alla commozione, come “una lacrima sul viso”. La Chiesa ha i suoi tempi – sempre lunghi – ma quanto avviene in Francia, anticipa sempre prima o poi l’Italia.

Se le porte delle chiese rimangono sbarrate per la Messa antica, per i non cattolici si aprono addirittura quelle delle basiliche romane. Infatti, dopo la celebrazione degli anglicani in S. Giovanni in Laterano, il papa copto Tawadros II, domenica 14 maggio, vi ha celebrato la Divina Liturgia, il che può essere discutibile ma va precisato come, a differenza degli anglicani, la Chiesa cattolica riconosce la validità dei riti ortodossi. Così come dovrebbe riconoscersi la Messa che si mantenne dal III–IV secolo fino al 1969 e ridare ad essa cittadinanza. Si potrà mai avere la par condicio, almeno una tantum, con i riti acattolici?

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