SACRO & PROFANO

Repole e il decisionismo "sinodale", cresce il malcontento in diocesi

I "germogli" sono in realtà la foglia di fico per nascondere l'autoritarismo nelle scelte sulla riorganizzazione. Tra le vittime più illustri don Ramello, sollevato dalla pastorale giovanile. Il modello boariniano imposto, a partire dalla formazione dei futuri preti

Come abbiamo detto la vittima più illustre – ma non l’unica – della “rivoluzione” avviata nella diocesi di Torino è stato don Luca Ramello, giubilato dall’incarico di responsabile della Pastorale Giovanile e mandato co-parroco a S. Mauro. In questi giorni si è diffusa la notizia, falsa, che ciò sia avvenuto per dissidi con il sindaco in quanto, insieme a don Stefano Votta, parroco della Regina della Pace in corso Giulio Cesare, si sarebbe pubblicamente lamentato del degrado che patisce il quartiere. Chi ha letto simile storia non ha potuto che sorridere. Fin da quando si seppe che il nuovo arcivescovo sarebbe stato Roberto Repole era chiaro che il destino di don Luca alla pastorale giovanile fosse segnato, non perché facesse male anzi – i numeri e il seguito avuto tra i giovani dimostrano che stava riscuotendo successo – ma perché il suo tipo di approccio non rispondeva alla linea e al progetto di “riplasmazione” della diocesi. Ma soprattutto – e forse questo è il vero motivo – perché il modello di prete da lui incarnato appariva agli occhi del “cerchio magico” troppo tradizionale – anche se nessuno potrebbe mai rubricare don Luca fra i tradizionalisti – e in contrasto con il disegno superiore che sta dietro alla scelta del nuovo rettore (don Giorgio Garrone) e del super rettore (don Paolo Tomatis): tornare al “modello Boarino” e imporlo come unico. Forse esagerando qualcuno ha commentato che come nelle migliori dittature – soprattutto quelle soft, un po’ alla Grande Fratello – occorre conquistare i luoghi di formazione per conquistare l’egemonia. Il segnale è lanciato, chi non si adegua è avvertito.

Il malcontento però fra i preti serpeggia ed è trasversale. Ciò che ha amareggiato non sono tanto gli accorpamenti – ritenuti inevitabili – quanto il metodo che ha visto il sinedrio schierato a dare comunicazioni senza possibilità di interloquire e dove la storia dei «germogli» è apparsa a tutti come la foglia di fico per simulare un autoritarismo che stride con i tanti richiami alla sinodalità. Sarà per questo che alla processione della Consolata non è sfuggito ai più attenti osservatori come i preti diocesani fossero assai pochi… In compenso abbiamo visto il vescovo ausiliare Alessandro Giraudo sfilare in abito corale (quello che il suo predecessore chiamava «la sala trucco») dopo aver da poco dismesso panni più consoni.

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E così i gesuiti si sono decisi a mettere fuori dalla Compagnia l’artista padre Marko Rupnik sperando che le decine di vittime dei suoi abusi si accontentino e che i media si plachino. Il provvedimento – che evita il processo canonico – riguarda la disobbedienza ai superiori ma non rileva sulla sua appartenenza allo stato clericale in quanto una sua dimissione è di competenza della Santa Sede. A questo proposito anche i siti più progressisti non hanno potuto non interrogarsi su quale sia stato e sia il ruolo del papa sull’intera inquietante vicenda. Sono domande scomode che i vaticanisti accreditati non si sognano di fare.

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Martedì scorso è stato pubblicato l’Instrumentum Laboris del sinodo sulla sinodalità che si presenta come un documento complesso e di natura “liquida” sul quale ritorneremo. Ictu oculi emergono fino alla svenevolezza alcuni refrain di quello che si sta sperimentando come il “sinodalese”: una Chiesa «dell’ascolto», una Chiesa «umile che ha molto da imparare», una Chiesa «dell’incontro e del dialogo», una Chiesa «plurale» (ma fino ad un certo punto), una Chiesa «accogliente» etc. Nessuna chiarezza è venuta alla presentazione del documento fatta dai relatori del sinodo dove si sono ascoltate enunciazioni di questo genere: «Il sinodo è un processo di circolarità profonda tra profezia e discernimento», oppure che «non troverete nel testo una sistematizzazione teorica della sinodalità, ma il frutto di una esperienza di Chiesa, di un cammino nel quale tutti abbiamo imparato di più, per il fatto di camminare insieme e interrogarci sul senso di questa esperienza».

L’ impressione prevalente è quella di Luis Badilla (ex ministro del governo Allende, per anni giornalista di Radio Vaticana) e cioè che il testo potrebbe essere stato scritto quindici o venti anni fa o anche – secondo noi – trent’anni fa, tanto è datato, scontato e senza alcun afflato mistico o spirituale, sostanzialmente clericale. Lo stile è – nonostante le apparenze – retorico e sentenzioso e «alla fine della lettura si ha la sensazione di essere stati seduti di fronte ad un accademico altezzoso, desideroso di ascoltare sé stesso». Le questioni sono quelle di sempre: sacerdozio femminile, Chiesa e persone lgbtq, sacerdozio per i diaconi sposati, più apertura e rilevanza a donne e laici, celibato opzionale, diaconato femminile e così via. Qualunque decisione si prenda dipenderà poi tutto dall’umore del papa. Ricordiamo che il Sinodo sull’Amazzonia del 2019 era stato predisposto per aprire le porte ai viri probati ma poi Bergoglio cambiò idea e bocciò la proposta dei padri sinodali perché… non c’era stato il discernimento.

Sembrerebbe venuto il tempo di riformare questa istituzione voluta da papa Paolo VI che da tempo è diventata un’assemblea in cui tutto è già deciso dall’alto e i partecipanti sono scelti e nominati o eletti rispettando un preciso orientamento e dove non vengono tenute in nessun conto le voci critiche o dissenzienti. Non aveva torto il cardinale Carlo Maria Martini quando sosteneva che per cambiare la dottrina – come si vuole fare – lo strumento la Chiesa lo ha da sempre e si chiama Concilio dove partecipa ogni vescovo dell’orbe cattolico e dove può dire la sua senza timori. Ma questa sarebbe la collegialità perché che cosa si intenda per sinodalità oggi non è affatto chiaro e persino un teologo della Santa Croce come Miguel de Salis riconosce che non si è oggi «del tutto attrezzati per formulare una visione coerente e completa dell’argomento». Per adesso si sa soltanto che la sinodalità è un «processo» che deriva da una «esperienza» che, con troppo disinvoltura e abusivamente, viene definita come la voce dello Spirito e che deriverebbe da «una Chiesa in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza». Qualcuno ha azzardato che dietro a queste fumisterie – dalle quali ci si può aspettare di tutto – si nasconde l’obiettivo di precostituire una nuova opinione pubblica ecclesiale titolare del munus docendi.

Come ha notato Catholic Sat «sembra che l’Istrumentum Laboris sia il prodotto di lobby progressiste ben organizzate che si sono impegnate nel processo. Le preoccupazioni e i desideri dei liberals riempiono il documento, con la completa assenza di qualsiasi preoccupazione o desiderio dei cattolici più conservatori. Questo è un problema di credibilità per l’intero processo». Se si pensa che nel documento non si parla mai né di redenzione e né di peccato non si può non convenire con chi ritiene che esso rappresenta una forma conclamata di scollamento dal reale i cui esiti non possono che essere una afasia spirituale e, conseguentemente, l’irrilevanza politica e culturale della Chiesa. Naturalmente si dirà che una volta celebrato il sinodo, la Chiesa è diventata sinodale ma chi ha sotto gli occhi lo stile di governo di Bergoglio o del gruppo di comando della diocesi di Torino, non si farà certo ingannare. Dopo il documento finale comincerà una nuova maratona per preparare la Seconda sessione nel 2024.  Dum Romae consulitur

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Riprendiamo il nostro excursus sulle origini del “boarinismo”. Dicevamo del suo duplice fondamento teologico e psicologico. Sul primo punto, il “gran maestro” fu don Franco Ardusso, un serio teologo della facoltà torinese, il quale ebbe la fortuna di studiare il tedesco e parlarlo correntemente potendosi così ammantare di un’aura di autorevolezza più ampia della sua Opera omnia. Ardusso era in fondo un prete “classico” formatosi alla Gregoriana con illustri maestri (fra questi il mitico padre Sebastian Tromp) che, tuttavia, per voler piacere a tutti, spesso oscillava tra affermazioni ortodosse ed esternazioni iper-progressiste, talora anche cripto-riformate. In tal modo era gradito ai più e ha rappresentato il “paravento” culturale del “boarinismo”, sempre ipercritico verso il passato e bisognoso di consenso, anche da chi poco o nulla capiva della sua teologia. Il presupposto filosofico era (ed è?) rappresentato da don Oreste Aime, quanto di più distante ci possa essere dalla metafisica. In effetti la metafisica a Torino è morta con monsignor Pietro Caramello (1908-1997), ultimo vero tomista, che tuttavia a causa dell’età avanzata non fu in grado di declinare il tomismo nella modernità, determinando una generale e ingiustificata allergia sia alla filosofia, sia alla teologia dell’Aquinate e, di conseguenza, a tutta la dottrina che da esse deriva. Don Valter Danna, futuro vicario generale con l’arcivescovo Cesare Nosiglia, sostituì Caramello con la gnoseologia di Bernard Lonergan (1904-1984) mentre Aime continuava – e continua – con quel che resta dell’esistenzialismo. Dal punto di vista filosofico e teologico i “boariniani” sono quindi a-tomisti, esistenzialisti e, rispetto alla gnoseologia, ostaggi del «soggetto conoscente» e quindi delle mode passeggere e delle personali emozioni del momento. (continua)

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Uno dei nostri ricordi di ragazzo fu l’apparire dalla Loggia delle Benedizioni della basilica vaticana il 21 giugno 1963, in una delle prime dirette televisive, della figura di Paolo VI. Due anni dopo, traendolo dai suoi studi, chiamò come arcivescovo di Torino l’allora monsignor Michele Pellegrino con il quale tuttavia, nella seconda parte del suo pontificato, i rapporti non furono sempre idilliaci, anche se il cardinale rassegnò le dimissioni nel 1977 non per imposizione vaticana – non erano ancora i tempi di Bergoglio! – ma per la insostenibile pressione che sul vescovo esercitavano i gruppi organizzati del clero e del laicato progressista. Vogliamo riferire quanto ci raccontò monsignor Livio Maritano (1925-2014), allora vescovo ausiliare di Torino, quando il 3 maggio 1970 si recò con il cardinale Pellegrino alla canonizzazione di San Leonardo Murialdo. Conclusa la solenne celebrazione essi si recarono nella sacrestia della basilica di S. Pietro per ringraziare il papa il quale, appena li vide e senza nemmeno salutarli, rivolse loro questa inquietante e drammatica domanda che lasciò i due prelati senza parole: «Ma ci sono ancora dei santi oggi a Torino?». Erano gli anni della contestazione ecclesiale e degli abbandoni dei preti mandati dallo stesso Pellegrino ad addottorarsi a Roma e a Lovanio. Nel 1972 il seminario di Rivoli avrebbe chiuso i battenti. Fu, come scrisse uno storico torinese, «il simbolo di un sogno irrealizzato e il segno di una disfatta».

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