SACRO & PROFANO

Cattolici senza "Codice" in politica

I principi che ispirarono ottant'anni fa il celebre documento di Camaldoli appartengono irrimediabilmente al passato. La lezione di Del Noce. La diocesi di Torino si appresta a celebrare senza enfasi il centenario del cardinal Saldarini. Le ombre del caso Rupnik

Nel corso delle celebrazioni per l’ottantesimo del Codice di Camaldoli il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il cardinale Matteo Zuppi ne hanno esaltato l’importanza e la modernità dei contenuti. Esso – sono parole del porporato – deve costituire ancora un faro luminoso per l’agire dei cattolici in politica e il Capo dello Stato lo ha affiancato come importanza al Manifesto di Ventotene. Rileggendone il testo si possono trovare proposizioni che derivano direttamente dalla Dottrina sociale della Chiesa e del principio della sussidiarietà: «La società civile deriva remotamente da Dio creatore»; la dignità dell’uomo nelle società deriva dal fatto di essere «preordinato a Dio»; il bene comune è sia di ordine naturale che spirituale; il bene comune non è indirizzato solo allo sviluppo della vita materiale degli uomini ma anche a quella religiosa; la sovranità statale deriva da Dio; lo Stato deve riconoscere la natura divina della Chiesa; la famiglia ha come base e sorgente il matrimonio nel senso cristiano di unione giuridica e spirituale, perpetua, una e indissolubile per la procreazione e l’educazione della prole, il mutuo aiuto e rimedio alla concupiscenza; soltanto nell’unione matrimoniale c’è il diritto alla procreazione della prole; il divorzio come soluzione del vincolo è inammissibile. E si potrebbe continuare. Il Codice, in sostanza, voleva collocarsi nella prospettiva di Pio XII secondo il quale la democrazia per essere tale avrebbe dovuto accogliere il presupposto del diritto naturale nei suoi ordinamenti.

Sarebbe interessante un’analisi storica che indagasse se e come i politici cattolici che l’anno dopo diedero vita alla Democrazia Cristiana e poi governarono per decenni il Paese, agirono in conformità di quei principi e come li attuarono nella vita pubblica. Forse si scoprirebbe che al faro di Camaldoli – evocato dal cardinale Zuppi – essi spensero la luce in quanto i cattolici democratici privilegiarono l’unità politica e il potere favorendo un processo di scristianizzazione senza precedenti nella storia del Paese, rendendo così inutile il riferimento religioso della loro presenza e quindi, caduto il muro di Berlino, l’inevitabile loro “suicidio”. Tale processo – va detto comunque – fu accompagnato e giustificato da una poderosa revisione teologica del rapporto Chiesa-mondo.

Che i principi del Codice di Camaldoli non abbiano più nulla a che fare con coloro che avrebbero la pretesa di ispirarsi in politica al cattolicesimo, un esempio vale per tutti. Mesi fa, Enrico Letta, ancora segretario del Pd, disse in un’intervista che la fede è per lui un affare di coscienza, «una cosa mia nel senso di privata, che riguarda me e il mio rapporto personale con Dio». Senza quindi che esso abbia o possa avere una qualsivoglia ricaduta pubblica. Questa concezione privatistica del fatto religioso è quella dei “cattolici adulti” alla Romano Prodi e viene considerata niente meno che garanzia di vero pluralismo e laicità. Augusto Del Noce vedeva proprio nella riduzione del fatto religioso ad affare di coscienza la conseguenza di una protestantizzazione di fatto del cattolicesimo da un lato e, dall’altro, della continua ricerca di chiavi interpretative laiche rispetto a quella cattolica al fine di ottenere un lasciapassare culturale ed essere ammessi nel consesso dei moderni. I redattori del codice di Camaldoli pensavano invece alla fede che si fa polis e che essa non poteva non avere anche una traduzione politica, non certo di ordine teocratico – vedi Islam – o di rinnovata alleanza tar Trono e Altare, ma di una ricaduta pubblica dei suoi principi. Su Camaldoli si è espresso anche Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi, ammettendo che «in quel tempo c’era un idem sentire nel mondo cattolico. Oggi i sondaggi ci dicono che il comportamento elettorale dei cattolici è uguale a quello dei non credenti».

Eppure, per rimanere coerente con i suoi principi, per il cattolico impegnato in politica non è affatto necessario risalire a Pio XII o al Concilio, basterebbe rifarsi alla Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede del 24 novembre 2002 e che conserva ancora la sua attualità. Due soli punti fra gli altri. Che cosa deve fare un politico cattolico quando si trova di fronte proposte di legge che riflettono la concezione del pluralismo etico proprio del relativismo culturale dominante dove, per esempio, tutte le possibili concezioni della vita hanno uguale valore? Così risponde la Nota dopo aver chiarito che non ci possono essere due vite parallele, da una parte la vita spirituale e dall’altra quella secolare, ossia la vita concreta dei rapporti sociali, della cultura, dei rapporti politici poiché la fede è una unità inscindibile: «Se il cristiano è tenuto ad ammettere la legittima molteplicità e diversità delle azioni temporali, egli è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili». Ma su questo piano – quello della difesa dei valori non negoziabili – è mancata non solo l’azione dei politici cattolici ma prima ancora il magistero e l’impulso dei vescovi e ciò è causa non ultima, per ambedue, della loro attuale insignificanza dalla quale non la trarranno i continui appelli alla mobilitazione e all’impegno.

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Continuando il nostro racconto sul fenomeno del “boarinismo”, se il silenzio di monsignor Giuseppe Ghiberti e il “gran rifiuto” di monsignor Renzo Savarino ad assumere l’incarico di rettore del seminario di Torino, legittimarono indirettamente i “boariniani” e, con essi, la loro assai discutibile e parziale linea formativa, come mai il cardinale Giovanni Saldarini non riuscì ad incidere davvero? Prete preparato e di solidissima dottrina, cresciuto alla scuola dei grandi vescovi ambrosiani come il Beato cardinale Ildefonso Schuster e il cardinale Giovanni Colombo, vescovo ausiliare prima e vicario generale del cardinale Carlo Maria Martini che – si diceva – lo inviò a Torino, forse per non averlo fra i piedi, come mai non seppe dare una “nuova impronta” alla diocesi in generale e al seminario in particolare?

In realtà Saldarini ci provò, cambiando, d’un un sol colpo, il rettore Boarino e il vicerettore Valter Danna, all’epoca del tutto immedesimato nel «sistema formativo psico-affettivo», ma successivamente poi scaricato dai “boariniani” stessi. Il cambio ebbe aspetti drammatici, con reazioni scomposte ed emotivamente sproporzionate di vari seminaristi dell’epoca e che oggi sono arcivescovi, vescovi, preti o ex preti ammogliati o “maritati”. Si dice che Saldarini dovette ammonire pubblicamente don Boarino con un raggelante richiamo – e c’è da domandarsi di che cosa egli fosse a conoscenza – esprimendosi in tal modo: «Guai a voi quando tutti diranno bene di voi, perché lo stesso fecero i vostri padri con i falsi profeti» (Lc. 6,26).

Il cambio, tuttavia, non fu del tutto efficace. Innanzitutto, la persona scelta, don Giovanni Coccolo, forse a causa della sua fragilità umana e culturale, non seppe creare una vera alternativa e una discontinuità ma, soprattutto, per l’isolamento e il vuoto che fu creato intorno all’arcivescovo fin dalla sua prima lettera pastorale che, dopo anni di orizzontalismo, significativamente invitava i cristiani a «guardare in alto». (Os 11). Saldarini si basava sui verbali delle visite canoniche romane che avevano indicato come «perniciose» le commistioni tra foro interno e foro esterno e suggerito, a tutela del foro interno, la permanenza stabile di un padre spirituale in seminario. Egli però, come si è detto, fu subito messo sotto assedio, condizionato dall’immarcescibile don Franco Peradotto e da quelli che lo subornavano. Ma sulla figura del prete-giornalista torneremo. La partita si giocò però nella scelta del delicato incarico di segretario e dopo la brevissima e piuttosto confusa esperienza di don Renato Casetta, gli fu suggerito, ed egli ingenuamente accettò, di prendere come suo segretario l’allora giovane ed aitante don Luciano Morello il quale, piuttosto privo di preparazione culturale di base, dovette improvvisarsi nel nuovo incarico. Tutti ricordano il suo profondo imbarazzo allorché, per la prima volta, fu costretto ad indossare la veste talare in occasione del concistoro in cui Saldarini fu creato cardinale. E fu proprio don Morello la longa manus dei “boariniani” nelle cose della diocesi – in erudiendo et in suadendo –, con tutte le prevedibili conseguenze e cioè quelle di una riforma mancata e di una occasione sprecata. Ed è anche per questo che – forse – diversamente da altre diocesi italiane, i segretari degli arcivescovi di Torino non assurgono mai a compiti di rilievo ma tornano nell’ombra, sprecando un patrimonio di esperienze e competenze di gestione che, altrove, verrebbe sicuramente valorizzato.

Nel 2024 saranno cento anni dalla nascita del cardinale Saldarini e possiamo essere certi che, se mai verrà ricordato, lo sarà in tono minore e di circostanza. Per capirlo basta entrare in quel duomo di Torino in cui il porporato dispose espressamente di essere sepolto e dove le sue le spoglie riposano in forma quasi anonima – indicate da una targa marmorea mobile posta in terra e dalla quale hanno tolto pure la fotografia – ai piedi di una colonna. (continua)

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Finalmente, dopo mesi di silenzio e di ambigui comunicati, la Compagnia di Gesù ha dimesso dalle sue file il noto religioso-artista sloveno Marko Ivan Rupnik. Per assumere questo provvedimento c’è voluta una campagna di stampa che ha messo in luce come egli fosse stato l’autore di vari abusi su religiose e per questo fosse persino stato scomunicato, in quanto autore del grave reato canonico di assoluzione del complice. Scomunica che dopo appena due settimane gli fu tolta dal papa il quale, richiesto in merito, ha sempre negato tutto. Questione risolta dunque? Parrebbe proprio di no, in quanto Rupnik rimane prete ed è quello che non voleva l’ex prefetto del dicastero per la dottrina della fede Luis Francisco Ladaria Ferrer che gli comminò la scomunica. L’intervento papale cancellò la scomunica imponendo al religioso alcune restrizioni che comunque non furono da lui mai rispettate, continuando lo stesso a insegnare, dettare esercizi, scrivere nella collana teologica diretta da Roberto Repole, presentare le sue opere d’arte etc.  A questo punto iniziarono le inchieste giornalistiche che misero in luce le depravazioni sessuali esercitate dal religioso e la Compagnia, dopo, aver tergiversato per mesi e mesi in un imbarazzato silenzio, ha infine deciso per l’espulsione, motivandola con la disobbedienza di Rupnik il quale – giova ricordarlo – quando era in auge suggeriva nominativi di vescovi e nomi strategici nel governo dei dicasteri. Una domanda si pone ed inquieta molti cattolici, non solo conservatori. Nella Chiesa di Francesco in prima linea nella lotta agli abusi è possibile fare eccezioni per cui uno come Rupnik possa ancora consacrare il pane eucaristico?

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Peter Seewald è stato il giornalista al quale Benedetto XVI concesse le interviste più importanti, raccolte poi in almeno tre volumi, ed è l’autore della più attendibile biografia di papa Ratzinger. Questa volta è stato intervistato lui e non le ha mandate a dire ma è stato assai esplicito e franco sfatando la storiella che qualche sciocco ancora divulga e cioè che fra i due papi – Benedetto e Francesco – vi sia stata e vi sia una perfetta continuità di vedute e di azione. Bergoglio ha infatti dimostrato, nei fatti in varie occasioni e su più temi, di voler tagliare ogni legame con il suo predecessore. Una per tutte è la lettera di nomina di Tucho Fernández in particolare dove afferma, con chiaro riferimento a Joseph Ratzinger, che in passato il Dicastero «ha adottato metodi immorali…». Ma l’aspetto più eclatante della discontinuità operata da Francesco – quando Benedetto XVI era ancora in vita recandogli un acuto dolore – fu la cancellazione di Summorum Pontificum: «Francesco non ha avuto nessuno scrupolo a cancellare con un colpo di spugna uno dei progetti più cari al suo predecessore» per pacificare la Chiesa e con la piena consapevolezza che è proprio nel rapporto con la liturgia che si decide il destino della fede e della Chiesa. «Francesco, invece, descrive le forme tradizionali come una “malattia nostalgica”. Ci sarebbe il pericolo di rivolgersi al passato come reazione alla modernità. Come se si potessero dirigere le tendenze, i desideri e le necessità a colpi di decreti di proibizione». Sewald   giudica poi un’invenzione che sia stato l’episcopato mondiale a richiedere le drastiche restrizioni alla celebrazione del rito antico: «Non è vero. Da una parte, solo pochi vescovi hanno risposto al questionario e dall’altra, per quanto ne so, non si si sono pronunciati nella maggioranza contro Summorum Pontificum. E poi la mancanza di stile, dal momento che il papa emerito ha dovuto apprendere la modifica del suo motu proprio leggendo l’Osservatore Romano. Per lui è stata una pugnalata al cuore e non si è mai più ripreso fisicamente».

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