SACRO & PROFANO

Vescovi in cerca di leadership, Repole "prenotato" per la Cep

La Conferenza episcopale piemontese spera in un rilancio con l'imminente arrivo al vertice dell'arcivescovo di Torino. Le vicende parallele e divergenti di Bose e Opus Dei. Il silenzio sul trentennale della Veritatis splendor di Giovanni Paolo II

Uno degli organismi più inutili, scialbi e conformisti della Chiesa cattolica sono le conferenze episcopali regionali. Nessuno sa che esistano e a cosa servano se non a riunirsi due o tre volte l’anno in località amene  per produrre qualche documento illeggibile e scontato – che non riceve nemmeno l’attenzione dei settimanali diocesani – consumare pranzi ove per timore ci si contiene il più possibile nei discorsi e infine, se la location lo consente, scattare una foto di gruppo il cui risultato, più che un’accolta di prelati, sembra ritrarre la gita sociale degli alcolisti anonimi o dei pensionati messi anticipatamente a riposo da un’azienda fallita. Ogni questione di interesse generale o locale che riguardi questioni di carattere bioetico o biopolitico che li dovrebbe interessare come pastori, suscita apprensione e viene sempre accuratamente scartata e nemmeno presa in considerazione, sia per paura di doversi confrontare tra di loro sia, soprattutto, per non correre il rischio di dare qualche dispiacere al mainstream. Per cui, quieta non movere et mota quietare.

Adesso a guidare la Conferenza piemontese, dopo la presidenza del grigio Cesare Nosiglia – che il vescovo di Novara monsignor Franco Giulio Brambilla fece di tutto per scalzare – è stato eletto, in attesa che a succedergli sia l’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, l’ancor più grigio (sembra impresa impossibile) vescovo di Aosta monsignor Franco Lovignana. La sua regola aurea di governo è quella del conte zio: «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire…», al punto che alcuni rimpiangono i sociologismi del predecessore monsignor Giuseppe Anfossi. Esemplare, sotto questo profilo, la gestione della vicenda del più famoso prete valdostano, il prolifico scrittore don Paolo Curtaz che nel 2007, dopo aver annunciato di essere diventato padre, chiese e ottenne la dispensa dagli obblighi derivanti dal ministero sacerdotale continuando a tenere conferenze.

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Recentemente le giunte di centrodestra di Veneto e Friuli-Venezia Giulia hanno aperto al suicidio assistito. I vescovi del Triveneto ovviamente hanno taciuto e se mai parleranno – ed è improbabile che lo facciano – si esprimeranno “insieme”, cioè collegialmente, perché se uno mai osasse pronunciarsi sarebbe accusato di rompere la “comunione” tra le Chiese locali e poi perché così si evitano grane e non ci si espone. Ci provò qualche anno fa l’ingenuo vescovo di Acqui, monsignor Piergiorgio Micchiardi, che tentò con una sua lettera pastorale di interpretare Amoris Laetitia secondo la dottrina tradizionale e dovette poi sottoscrivere un documento collegiale più “aperto”, anche per non irritare l’inquilino di S. Marta. Si affida così la comunione non alla verità ma a dichiarazioni accomodanti, piene di distinguo e basate sull’opportunità politica. Proprio come avrebbero fatto gli Apostoli di cui i vescovi sarebbero i successori… Il fatto è che quando la Chiesa rinuncia a difendere l’ordine naturale e a illuminare le coscienze è perché ha già perso di vista quello soprannaturale. In tal senso, lasciando che decisioni così importante come quelle sull’inizio e sul fine vita, siano esclusivamente affidate alla coscienza individuale del singolo, la Chiesa si è già trasformata in una confessione protestante.

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Le vicende di Bose e dell’Opus Dei – la prima che da «associazione privata di fedeli» è stata elevata e riconosciuta come «Monastero sui iuris» e la seconda declassata da «Prelatura personale» ad «Associazione clericale di diritto pontificio», hanno suscitato un vivo dibattito tra favorevoli e contrari. Sulla vicenda di Bose e sulla sua nuova configurazione giuridica è comparso su Settimana News un lungo articolo di Lorenzo Prezzi, seguito da vari commenti di quei laici che per anni a Bose si erano abbeverati al verbo del guru e che non nascondono amarezza e delusione per la rottura consumatasi. Ogni narrazione appare comunque ambigua e lacunosa e tutti lamentano sulle vicende l’assoluta mancanza di trasparenza – non dire mai francamente le cose – come nello stile gesuitico di questo papa e sul suo assolutismo monocratico, vedi casi Zanchetta e Rupnik. Adesso Bose da comunità di semplici laici, nata per salvaguardare la natura laica del monachesimo delle origini, si è trasformata in una comunità monastica che rientra nel capitolo “Vita consacrata” del Codice di diritto canonico alle dipendenze del dicastero romano dei religiosi. I monaci di Bose sono diventati quindi dei religiosi laici che emettono i voti con i membri non cattolici – pare siano ridotti a tre – che non possono accedere alle cariche elettive della comunità. Si è saputo che, dopo la rottura, almeno un terzo dei monaci ha lasciato la comunità e il noviziato è vuoto. In ogni caso, su cosa sia veramente successo sull’altipiano della Serra, tutti tacciono alimentando così il complottismo e le voci.

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Enzo Bianchi, insediato alla Madia di Albiano d’Ivrea, sta promuovendo il suo monastero tra i laici ma anche tra il clero e sul sito ha scritto che la nuova realtà ecclesiale «è disposta a collaborare fraternamente con il Monastero di Bose». A questo proposito qualcuno ha voluto ricordare quello che scrisse il cardinale Pietro Parolin in una lettera del 22 gennaio 2022 indirizzata ai vescovi in cui li ammoniva a non giovarsi più di Bianchi per la formazione del clero e delle comunità cristiane, accusandolo «di non aver rinunciato effettivamente al governo della comunità, interferendo in diversi modi continuamente e gravemente sulla conduzione della medesima comunità e determinando una grave divisone della vita fraterna, ponendosi al di sopra della regola della comunità e delle esigenze evangeliche da essa richieste, esercitando la propria autorità morale in modo improprio, irrispettoso e sconveniente nei confronti della comunità, provocando scandalo».

Un anziano fedele di Enzo Bianchi fin dai primordi, dicendosi stupito che egli abitasse in una casa per conto suo anziché nel monastero, così commenta: «Quanto alla sua predicazione la vedo ripetitiva con la stessa polemizzazione di quando lo sentii per la prima volta a Biella nel 1970. Tutti ’sti biblisti, lui e tutti i predicatori sul web parlassero di Scrittura invece che fare tuttologia! Sono vecchio, Bianchi è vecchio, il progressismo è vecchio, il nuovo è all’opposto di noi. Senza rassegnarsi comunque il futuro non è nostro».

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Nel mondo cattolico “bergoglizzato” nessuno ha ricordato il trentesimo anniversario (8 agosto 1993) della promulgazione di Veritatis splendor, l’enciclica di Giovanni Paolo II sulla teologia morale. Già quando apparve fu accolta dall’ostilità dei più rinomati teologi morali della Chiesa. Il santo pontefice ribadiva infatti l’esistenza della legge naturale, degli «assoluti morali» e degli intrinsece mala contro la cosiddetta «opzione fondamentale» e il soggettivismo morale. Tucho Fernandez, nuovo prefetto del dicastero della dottrina della fede, ha già espresso il suo giudizio negativo su Veritatis splendor colpevole, a suo giudizio, di «fissare alcuni limiti». Di essa, nessun aspetto è stato salvato dalla nuova gestione del Pontificio istituto per la famiglia che pure si fregia del nome di Giovanni Paolo II, suo fondatore. Non l’impianto di teologia fondamentale di riferimento, non la visione antropologica che vi sottintendeva, non la norma naturale e rivelata, non il rapporto tra la norma e la coscienza e soprattutto non l’esistenza di azioni sempre erronee e da non compiersi mai e in nessuna occasione e, soprattutto, il concetto di peccato che non è più visto come aversio a Deo et conversio ad creaturas ma come «inadeguatezza» o «fragilità».

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